lunedì 29 marzo 2010

BEST COVER

Quanto è modesto, questo ragazzo... ma visto che non si decide a dirlo lui, lo dico io... all'ultimo Cartoomics, il nostro Emiliano Mammucari si è aggiudicato il premio PAY 2010, allestito dal sito ayaaak.net, nella categoria miglior copertinista, per il suo lavoro su Caravan. Lo so che sono in conflitto d'interesse, ma dico lo stesso che il riconoscimento è strameritato.

sabato 27 marzo 2010

RIVELAZIONI

Vi rivelo qualcosa che ben pochi sapevano. Ai vecchi tempi vigeva in casa editrice un’implacabile regola redazionale: per ogni albo bisognava proporre almeno quattro o cinque titoli, tra i quali colà dove si puote era scelto il titolo definitivo. Titolo che, almeno nelle intenzioni, doveva essere intrigante, affascinante, evocare mistero e avventura.

Per me le storie avevano un solo titolo: quello che decidevo al momento di cominciare la sceneggiatura e che definiva l’argomento della storia. E confesso che il giochino dei cinque titoli (insieme alla scelta delle vignette di anteprima dell'albo successivo, che potrebbe essere argomento di un prossimo post) mi faceva impazzire.

Il numero 5 di Nathan Never per me era Una ragazza di nome Angel. Fu cambiato nel più evocativo Forza invisibile. L’asettico Sconosciuti diventò Gli occhi di uno sconosciuto. Mi sono sempre rifiutato categoricamente di mettere il punto esclamativo nei titoli, cosa che si usava molto su Zagor e Tex: Bersaglio Tex Willer!; Gringos!; Destinazione Africa!; Thugs!

Conoscete il titolo di un film col punto esclamativo? Io riesco a ricordarne un paio sotto forma di domanda (Ma papà ti manda sola?; Che fine ha fatto Baby Jane?), e molti – soprattutto spaghetti western – coi puntini di sospensione. In compenso, non riesco a ricordare un solo titolo di un libro col punto esclamativo.

Col tempo imparammo a farci furbi. Per far passare il titolo che ci piaceva adottavamo un piccolo trucco: proporre nel ventaglio delle possibilità due o tre titoli standard (in genere “l’enigma di”, “il mistero di”, o un “agguato” o un “incubo” da qualche parte), buoni per qualsiasi testata e per qualsiasi circostanza. Dato che ogni mese si abbondava in enigmi, incubi e misteri, per evitare le ripetizioni il titolo standard veniva scartato, e riuscivamo a far passare il titolo che ci piaceva (riuscimmo quindi a far passare dei titoli in inglese, come Buffalo Express e Dirty Boulevard).

Anche se a volte, lo ammetto, il giochino si ritorceva contro di noi, e ci ritrovavamo con L’enigma della caverna e Incubo nello spazio.

Col tempo la regola dei cinque titoli è caduta in disuso. Chissà, forse perché abbiamo imparato a proporre titoli più convincenti che non necessitano di alternative. E anche se continuo a pensare che Rewind fosse per Dylan Dog un titolo più suggestivo del Giorno del Licantropo, dei titoli di Caravan sono particolarmente soddisfatto.

Il titolo del numero 10, Punto di rottura, ha un’origine bizzarra. Emiliano Mammucari aveva in mente l’immagine di Massimo che si guardava nello specchio in frantumi, e mi aveva chiesto di utilizzarla per la cover. Ho dovuto quindi cambiare il titolo originale della storia, Panem et circenses. Però non me ne sono affatto pentito. Punto di rottura mi piace molto di più. E anche se la copertina fa pensare a un’esasperazione che esplode con un gesto di violenza, chi ha letto l'albo avrà capito che la rottura in questione è un’altra. È quella dell’equilibrio interiore di Massimo. Qualcosa si spezza dentro di lui, in seguito agli avvenimenti drammatici narrati nell'episodio precedente.

I titoli di Caravan hanno spesso una doppia chiave di lettura. Nel numero 2, Il ribelle non è solo Stagger, ma anche Davide che si ribella all'atteggiamento di suo padre.

Nel numero 3, La parola di un leader (il sindaco Banks) non contiene solo la forza che guida i cittadini alla ribellione, ma una debolezza che rivela la fragilità del leader stesso.

Nel numero 4, La storia di Carrie è materialmente una storia, cioè un racconto nel racconto: Jolene racconta a Davide una storia che era stata raccontata a lei.

Nel numero 5 i lupi del titolo sono diversi. Ce n’è uno vero (un cane lupo) e tre lupi a due gambe (Kurt Bresler e i suoi amici).

E così via.

Per il prossimo numero avevo in mente il titolo Apocalisse. Poi ho optato per Rivelazione. Che – come qualsiasi dizionario o Yahoo answers potrà confermarvi – vuol dire letteralmente la stessa cosa. Perciò sapete cosa aspettarvi.

Beh, più o meno.

domenica 21 marzo 2010

INCOMPIUTE


Ho pochissime storie “nel cassetto”. Non essendo uno scrittore prolifico, quando comincio una storia faccio di tutto per concluderla, e nel più breve tempo possibile. Ma non sempre tutto fila liscio: ci sono idee che sembrano funzionare quando ci pensi su, e una volta messe sulla carta ti portano in un vicolo cieco.

Molti anni fa cominciai una storia di Nathan Never che si intitolava Floyd the droid. Parlava di un comico televisivo “alla John Belushi” diventato celebre per avere creato la macchietta del droide Floyd. Il comico era perseguitato da un nemico misterioso che minacciava di ucciderlo, e incaricava Nathan di proteggerlo. Alla fine si sarebbe scoperto che il nemico misterioso altri non era che lo stesso comico. Mollai dopo avere abbozzato una ventina di tavole. Lo spunto era lo stesso di un film oggi dimenticato, Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me?, e non riuscivo a inserire quell'idea in un contesto futuribile. In parole povere, non riuscivo a trovare la variante che giustificasse l’esistenza della storia.

Un'altra volta tentai una storia con un incipit ispirato a L'invasione degli ultracorpi. Una donna si presenta all'Agenzia Alfa e dice: “Sono convinta che mio marito non sia mio marito”. Dopo una lunga indagine, Nathan avrebbe scoperto che la caduta della stazione orbitante di Urania sulla Terra aveva provocato una “smagliatura” tra universi paralleli. E perciò l'incolpevole marito si era trovato catapultato nel nostro universo. Mollai perché la storia si stava sviluppando come una normale storia di detection piuttosto statica, e non c'era verso di movimentarla fino alla rivelazione finale.

Di un'altra sceneggiatura scrissi solo nove tavole, un classico incipit d'azione con un innocente in fuga. Sapendo che la storia andava a un disegnatore debuttante, dovevo scrivere una storia molto lineare ambientata tutta nella metropoli. Ma il disegnatore fece un lavoro talmente disastroso che gli fu imposto lo stop e fu messo alla porta. Si ripresentò in casa editrice un paio d’anni dopo. Oggi collabora con noi ed è molto apprezzato dai lettori. Ma quella sceneggiatura non è stata continuata.

Un'altra volta – sempre per Nathan Never - tentai una sceneggiatura basata su un’idea complessa e articolata, che può essere riassunta così: Alien nel deserto. Mollai dopo una ventina di tavole.

Un’altra storia rimase incompiuta per quasi dieci anni. Cominciai a scriverla nei primi anni novanta, consegnai una ventina di tavole e poi dovetti interromperla. Non poteva essere pubblicata prima di un’altra storia, incautamente affidata a un disegnatore lentissimo che impiegò anni a terminarla. Quando ripresi in mano la sceneggiatura avevo due piccoli problemi: a) dopo anni, avevo solo un ricordo vago di quello che volevo scrivere, e b) quello che era disegnato era disegnato, e non poteva essere cambiato. Quella storia è poi stata pubblicata nei numeri 173 e 174 di Nathan Never.

Le mie “incompiute” non sono tutte qui: ci sono altre idee, progetti arrivati a un buon grado di definizione, ma abortiti per le ragioni più diverse: una graphic novel ambientata nell'antica Grecia (il disegnatore mollò dopo avere disegnato una dozzina di tavole), una storia umoristica che riprendeva uno spunto di Legs (Quelle brave ragazze), un soggetto fantascientifico vagamente ispirato al Deserto dei Tartari.

E poi ci sono i soggetti rifiutati per Dylan Dog, naturalmente. Ma questi non ve li dico. Dopo tanti anni, posso sempre provare a riproporli con un titolo diverso, e in redazione leggono questo blog...

PS: a proposito di incompiute, una incompiuta straordinaria, che fortunatamente ha visto la luce, è questa.

martedì 16 marzo 2010

LE VIE DEL ROCK SONO INFINITE


Sette anni di silenzio dopo L’uomo occidentale (2003). Cioè sette anni senza un contratto discografico, interrotti solo dal tentativo generoso della Fantastica storia del pifferaio magico (con un solo inedito). Quale peccato avesse commesso Edoardo Bennato per scontare questo purgatorio, non lo so. Ma è storia passata, e guardiamo avanti.

Le vie del rock sono infinite conta 13 brani. Potevano essere di più (personalmente avrei preferito Sinistro o Il gioco delle tre carte al posto di C’era un re, ma pazienza), o forse anche di meno. Perché il materiale, chiaramente composto in tempi diversi, è eterogeneo, e magari qualcosa (Cuba) poteva restare fuori senza rimpianti.

Almeno a un primo ascolto, il sound non mi fa impazzire. La mano del produttore Barbacci (Negrita) si fa sentire, imponendo un rock melodico e pulitino a discapito del Bennato aspro e diretto che amiamo (e che ancora a tratti affiorava nell’Uomo occidentale). È lei e Un aereo per l’Afghanistan sono due ballate tipiche del Bennato degli ultimi decenni. In qualche modo naif nella loro positività, eppure sincere e sentite, con qualche statement esplicito: “Contro guerre senza ragione, contro guerra senza pietà/ contro guerre di chi le vuole/ contro guerre di chi le fa”.

Il capo dei briganti è senza dubbio il pezzo migliore, che associa brigantaggio di ieri e camorra di oggi, in lotta contro uno stato che fa “frastuono” con lo sdegno, ma che alla resa dei conti non riesce a imporsi. Ci sono i consueti divertissement briosi e ironici, Io Tarzan tu Jane, e soprattutto Wannamarkilibera: nella piacevolezza dello scioglilingua qualche battuta va a segno: “o tutte le canaglie vadano in galera, oppure dentro nessuna”.


A mio avviso le cose più interessanti del disco sono quelle del Bennato “intimista” rimasto sempre un po’ schiacciato dal Bennato rock’n’blues ironico e pungente. In amore, musicata con Alex Britti, è una bella canzone sulla difficoltà del parlare d’amore, oltre che del vivere l’amore. C’è una immagine curiosa, nel testo (“ti basta la fede/ti basta la rete e un arpione”), e un accenno che sembrerebbe rimandare alle “coppie scomunicate” di Notte di mezza estate, il successo estivo Bennato/Britti di qualche anno fa: “l’amore va avanti/ tra scritte inquietanti sui muri/ e tra le minacce e l’odio degli inquisitori”, canta Bennato, per concludere che “a volte chi canta canzoni d’amore è stonato/ e chi ha sempre promesso di spiegare l’amore ha imbrogliato”. Una canzone molto più densa di quello che può apparire a un primo ascolto.

Mi chiamo Edoardo e Vita da pirata e sono due canzoni autobiografiche. Anche dopo più ascolti non riesco a farmi piacere la prima, decisamente poco grintosa per il delicato compito di apertura del disco. Molto meglio Vita da pirata: “certe volte con destrezza sono andato all’arrembaggio/ altre volte ho naufragato in mezzo ai guai”. Bennato è ormai un signore sessantenne (è nato nel 1949) che guarda con un misto di tenerezza e ironia al proprio passato. E ho la sensazione che nell’esplosione del ritornello, che affastella le immagini di città vicine e lontane, viste o forse solo sognate, la sua voce sia incrinata da una vena di genuina malinconia.

Interessante anche la chiusura dell’album, affidata a Per noi. “Noi” è una parola poco comune nelle canzoni di Bennato, cane sciolto per antonomasia, e il pezzo assomiglia curiosamente a una preghiera laica, dall’andamento sommesso: “Per noi nemici latitudinali/ impauriti da quello che non conosciamo/ e che forse per questo, soltanto per questo ci odiamo”. Ma la fine è su una nota di speranza: “Per noi, che anche in questo momento/ insieme ci stiamo, e insieme ci stiamo muovendo”.

A sessant’anni suonati, Edo è salpato di nuovo.

sabato 13 marzo 2010

SECONDA STELLA A DESTRA...




E' uscito il nuovo disco di Edoardo Bennato. Io quell'isola continuo a cercarla, Edo. Grazie per avere indicato il cammino, tanti e tanti anni fa.

giovedì 11 marzo 2010

LA SAI L'ULTIMA?

Un uomo entra in un caffè… Splash!
Un uomo entra in un tè bollente… AARGH!

Adoro queste battute. La prima è un po’ come quei racconti alla Fredric Brown, in cui il finale a sorpresa capovolge la prospettiva su quello che hai letto un attimo prima (lo “splash” rivela che il “caffè” non è un luogo fisico, rendendo la situazione assurda).

La seconda battuta acquista il suo senso solo di seguito alla prima. Una volta che sei entrato in un universo (un “assurdo universo” alla Fredric Brown, appunto), devi accettarne le regole bizzarre (se un uomo entra in un caffè, può entrare anche in un tè) e trarne le debite conseguenze. E quindi, argh!, il tè bollente scotta.

In Caravan 10 ci sono diverse storielle (un po’ più articolate delle due battute qua sopra, comunque). Confesso di avere un debole per le barzellette, forse perché non sono un grande live–performer, e invidio chi le sa raccontare. La barzelletta costituisce una formidabile prova di narrazione. Se la racconti devi combinare le doti dello scrittore e dell’attore. Serve un’organizzazione del racconto molto precisa. L’introduzione deve essere abbastanza dettagliata da farti entrare nell’atmosfera, ma non così lunga da perdere di effetto. E poi serve la smorfia al momento giusto, la giusta intonazione, la pausa al momento opportuno, quel microsecondo che fa la differenza prima della battuta che dà senso al tutto.

Se è vero che i racconti sono la forma che diamo al mondo, organizzandolo in un modo coerente, la barzelletta è ciò che ne rivela l’assurdità, la congenita incoerenza.

Le storielle che avete letto su Caravan 10, visualizzate mirabilmente dall’eclettico Mammucari, le ho trovate su siti americani. Ne ho lette molte, e ne ho scelto alcune anche tenendo conto delle possibilità di visualizzazione.

Qualcuno mi ha fatto notare che la barzelletta finale non è propriamente esilarante, o comunque non è divertente quanto le altre. Può darsi. Però, anche se a noi non dice molto, ha un humour molto americano. Ho scoperto che esiste un ricco filone di storielle sul rapporto padre–figlio, basate generalmente sull’ottusità del genitore e l’astuzia del ragazzino.

"E ne ho in serbo altre fortissime!" direbbero Elio e le Storie Tese. Ma non sono adatte agli albi Bonelli, purtroppo.

mercoledì 10 marzo 2010

PRIMA DI THE HURT LOCKER, NEL 1959...

Berlino, appena uscita dal conflitto, è disseminata di ordigni inesplosi. Sei soldati tedeschi, reduci dai campi di prigionia Alleati, accettano di far parte di una squadra di sminatori. La loro è una quotidiana partita con la morte, giocata nella consapevolezza che la fortuna non può durare per sempre. Il cinico Wirtz propone al gruppo una sorta di macabra lotteria. Ognuno dovrà versare metà della paga in un fondo comune. Chi resta in vita raccoglierà tutto. A Wirtz si oppone senza successo l’idealista Koertner, un ex architetto. I rapporti tra i due diventano ulteriormente tesi quando entra in scena la bella Margot. E intanto, giorno dopo giorno, le bombe reclamano le loro vittime…

Dieci secondi con il diavolo (Ten seconds to hell) è una delle due avventure “europee” di Robert Aldrich (l’altra è Sodoma e Gomorra), ed è tratto da un romanzo (The Phoenix, di Lawrence Bachmann). Nonostante la bravura degli attori, non è tra i film più riusciti del regista. Vuoi per la produzione non propriamente ricchissima (il produttore europeo era Michael Carreras della Hammer Films), vuoi per la sceneggiatura (di Aldrich e del suo socio Teddi Sherman) un po’ scricchiolante nella parte sentimentale, ma soprattutto per il fatto che a Aldrich fu tolto il montaggio del film, ritenuto troppo lungo (due ore e dieci minuti).

In ogni modo, il film contiene un elemento cardine della filmografia aldrichiana: c’è un gruppo di sconfitti che, di fronte a una situazione estrema, deve elaborare un proprio sistema di regole. I protagonisti sono Jack Palance nei panni del disilluso Koertner e Jeff Chandler nella parte di Wirtz. Ma in un certo senso c’è un terzo protagonista – il Destino, con la D maiuscola – idealmente rappresentato dalle minacciose bombe inesplose. Se avete visto gli artificieri di The Hurt Locker, con le loro tute imbottite e i loro robot, non potrete non rabbrividire rendendovi conto che quella tra l’uomo e gli ordigni era una lotta a mani nude.

Ma la differenza tra il film di Aldrich e quello della Bigelow non è certo questa. La regista pone l’accento sulla “routine adrenalinica” che intossica i soldati come una droga. Gli sminatori in Iraq hanno scelto il loro pericoloso lavoro. Gli sminatori della Berlino postbellica sono sconfitti che cercano una chance in più nel loro “salario della paura”, proprio come i disperati del film di Clouzot.

In più, la pellicola della Bigelow – sceneggiata dal giornalista embedded Mark Boam – è asettica fino a rasentare l’ambiguità ideologica. Nella sua critica al film, Paolo Mereghetti lamenta “l’assenza di uno sguardo morale” (e per quel che vale, sono abbastanza d’accordo). In Aldrich l’approccio morale c’è, pur se un po’ imprigionato da un impianto drammatico non felicissimo. Significativi (e belli) i due rispettivi finali. In The Hurt Locker il protagonista rientra nel tunnel (metaforico) dell’adrenalina. In Dieci secondi con il diavolo, il sopravvissuto esce dal tunnel (reale) invaso dai fumi dell’esplosione, e solleva lo sguardo al cielo. Un finale insolitamente “ottimista” per Aldrich, che indica la speranza di una redenzione.

martedì 9 marzo 2010

PRIMA DI AVATAR, NEL 1977...

“Coinvolgere emotivamente il pubblico è facile. Chiunque può farlo anche bendato: prendi un gattino e fai che un tizio gli torce il collo.”

George Lucas

American Graffiti era costato meno di un milione di dollari, e ne aveva incassati cinquantacinque. Dopo l’insuccesso di THX 1138, George Lucas aveva cercato a tutti i costi il successo e lo aveva ottenuto. Quando American Graffiti sfondò ai botteghini, il progetto di Star Wars era stato già venduto. Eppure, forte del successo di Graffiti, Lucas riuscì a rinegoziare il contratto. Voleva produrre Star Wars con la propria società, voleva diritti sulle vendite della colonna sonora, sui giocattoli, su eventuali sèguiti del film. La Fox concesse tutto. Ci sarebbero voluti diciotto mesi per produrre i giocattoli dopo l’uscita del film. E a quel punto, pensavano agli studios, Star Wars sarebbe stato dimenticato.

Dopo un anno e mezzo dall'approvazione del progetto, Lucas aveva la sceneggiatura completa del film, e la fece leggere agli amici registi: De Palma, Scorsese, Friedkin. Nessuno si mostrò entusiasta.

La lavorazione del film cominciò agli Elstree Studios di Londra nel 1976, e non fu una passeggiata. Lucas non amava dirigere gli attori, gli attori non amavano lui, e gli scontri tra produzione americana e maestranze inglesi erano all’ordine del giorno. Quando finì di girare, Lucas era distrutto. Sua moglie Marcia lasciò il montaggio del film e andò a lavorare per Scorsese su Taxi Driver.

Nel 1977 Lucas aveva in mano la prima copia del suo film. Un montaggio ancora rozzo, e senza gli effetti speciali. Organizzò un’anteprima per gli amici. Il film sembrava così brutto che alcune persone uscirono prima della fine. Marcia Lucas scoppiò in lacrime. Amici e colleghi erano imbarazzati. Brian De Palma aggredì Lucas, accusandolo di essersi “dimenticato del pubblico”.

Il giorno dopo, il produttore Alan Ladd jr, che più di tutti aveva dato fiducia a Lucas, telefonò terrorizzato a Spielberg per sapere cosa ne pensasse di Star Wars.

– Penso che sarai il produttore più felice di Hollywood – disse Spielberg.

Alla fine, il costo di Star Wars fu di 9,5 milioni di dollari. Solo nei primi tre mesi di programmazione ne incassò 100. Dopo sei mesi, quella cifra era quasi raddoppiata. Sarebbe diventato uno dei film più guardati, amati, odiati, imitati, parodiati della storia del cinema.

Sulle ripercussioni culturali e sociologiche del film – aldilà dei suoi meriti e demeriti cinematografici – molto si è scritto e si continuerà a scrivere. Quello che è certo è che i colleghi e gli amici di Lucas (a eccezione di Spielberg) uscirono con le ossa rotte dal confronto. Un certo tipo di cinema legato alle idee e alla parola venne meno, sostituito da un cinema che cedeva tutto all’emozione dell’impatto visivo. “Il dialogo non ha molta importanza nei miei film – dichiarò Lucas, lucidissimo. – Sono un regista visivo, del tipo che cerca l’emozione al di sopra delle idee”.

Martin Scorsese, reduce dal fiasco di New York, New York, disse parlando di sé e dei suoi amici: “Siamo finiti”. Il fiasco di Sorcerer, sugli schermi in contemporanea a Star Wars, stroncò la carriera di William Friedkin, che in seguito dichiarò: “Star Wars ha spazzato via tutte le fiches dal tavolo da gioco”. E Robert Altman, negli ultimi anni di carriera, commentò amareggiato: “(il cinema, ndt) è ormai solo un grande luna–park”.

Star Wars ha cambiato il cinema per sempre. C’era un “prima di Star Wars”, e un “dopo Star Wars”. Il critico Peter Biskind ha spiegato tutto in una sola frase: “Siamo figli di Lucas, e non di Coppola”.


sabato 6 marzo 2010

PAURA E DELIRIO A HOLLYWOOD

Che cos’hanno in comune The Wolfman e Alice in Wonderland? Niente, apparentemente, se non il fatto di essere due (ennesimi) remake. E invece qualcosa in comune ce l’hanno. Sono due film privi di senso.

Il primo perché è un ricalco, tutto sommato abbastanza fedele, dei vecchi film della Universal. Realizzato con grande dispendio di mezzi e con attori famosi – Benicio Del Toro, Anthony Hopkins, Hugo Weaving – può configurarsi come un omaggio filologico al cinema “dei mostri”. Belli gli effetti speciali, belli i costumi (Milena Canonero, già premio oscar). Peccato che la sostanza dell’operazione sia tutta qui. E che oggi dell’uomo lupo sostanzialmente non ci importi niente, ragion per cui il film non strappa nemmeno un brividino piccolo piccolo. Siamo abituati a ben altri mostri per impressionarci.

E pensare che perfino il brutto Wolf–la belva è fuori di Mike Nichols si poneva il problema di una interpretazione del mito, cercando di collegare tematicamente la licantropia all'aggressività della nascente new economy. E fallendo nel tentativo. Ma almeno, coscienziosamente, gli autori si erano posti qualche interrogativo. Nel caso di The Wolfman, evidentemente no.

Nel caso di Alice in Wonderland di Tim Burton (scritto da Linda Woolverton) le cose sono anche peggiori. E sì che la partenza del film lasciava ben sperare. Nel prologo della storia è presentato il personaggio di Alice, ventenne alle prese con una società puritana e un fidanzamento imposto. Va benissimo. Ma appena Alice cade nell’albero cavo il film prende una piega dark – è il brand di Burton, dopotutto – che comincia a far sbandare la storia fino a farla deragliare con esiti agghiaccianti. A parte la freddezza fastidiosa dei personaggi (il tea party del Cappellaio è una delle cose più tristi e deprimenti mai viste in un film Disney), a parte che i momenti di umorismo si misurano in nanosecondi, è la sostanza dell’operazione a essere agghiacciante.

La trasformazione di Alice da crisalide in farfalla è la trasformazione dell’Alice di Carroll in una Vergine Guerriera con tanto di armatura scintillante e spada magica per affettare il mostro di turno. Non è solo il travaso meccanico di una fantasia maschile in una storia che si presuppone "al femminile": è una operazione che rivela un pensiero (o un’assenza di pensiero, o una confusione di pensiero) che lascia basiti. Ma il finale, se possibile, peggiora le cose. Il ritorno al mondo reale ovviamente rivela una presa di coscienza. E la presa di coscienza della ragazza consiste – giuro, non è uno scherzo – nel riprendere il business paterno e andare a commerciare in Cina.

Dunque, il senso (?) di un film per ragazzi – un film Disney, perlopiù – è che bisogna uccidere i mostri perché qualcun altro ti dice che è la cosa migliore da fare, e poi che bisogna "crescere": nel senso che bisogna fare dell’impresa di papà una multinazionale.

Le tematiche dell’Alice originale, quella di Carroll, le tematiche tipiche della filmografia del regista (la malinconia, la poesia del "diverso") scompaiono, lasciando il posto a un messaggio di un materialismo agghiacciante, che in un cineclub degli anni settanta sarebbe stato bollato con una sola parola: “fascista”. E, in questo caso, a ragione.

lunedì 1 marzo 2010

NON C'E' DUE SENZA TRE


Durante la manifestazione di Mantova Comics, conclusasi ieri, il premio Comicus Prize (assegnato dal sito Comicus.it) per il miglior fumetto "formato Bonelli" è andato a Caravan. La targa è stata ritirata dal nostro Stefano Marzorati (al centro nella foto, tratta dall'album di Comicus).

Questo è il terzo riconoscimento per la nostra serie, dopo quello per Davide Donati come personaggio dell'anno (ex aequo con Hellboy) nel referendum promosso da Repubblica/XL, e dopo il premio Gran Guinigi assegnato al sottoscritto in occasione di Lucca Comics & Games 2009.

Ringrazio tutti coloro che ci hanno accordato la loro preferenza, e invito tutti i lettori a cliccare qui per il resoconto della manifestazione a cura di Comicus.