martedì 29 settembre 2009

NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE

Ci sono lettori di fumetti che del fumetto sanno tutto. E quindi conoscono il vero motivo della crisi: “la mancanza di coraggio nel proporre qualcosa di nuovo” (da parte del fumetto popolare, ovviamente. Per quanto riguarda le graphic novel, un autore di graphic novel è esentato dal confronto col passato, noblesse oblige).

Questa dichiarazione è molto tranquillizzante, perché addita alla pubblica opinione un delitto e i suoi colpevoli. Un po’ come dire che è colpa dei comunisti. O dei clandestini che ci tolgono il lavoro.

Peccato che “qualcosa di nuovo” non sia sinonimo di “qualcosa di successo”. Ed è difficile pensare che arrivi una novità di dimensioni tali da risolvere la brutta situazione del fumetto italiano. Anzi, non è neppure scontato che una novità ripaghi lo sforzo fatto per elaborarla.

Un esempio veloce: il fiorire delle riviste a fumetti tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta. Costituivano indubbiamente una novità rispetto al passato e presentavano opere interessanti. Ma il boom delle riviste è durato poco. E gli autori lanciati dalle riviste e tuttora in attività si contano, mi pare, sulle dita di una mano.

Ma l’esempio più clamoroso è forse quello di Ken Parker. Al suo apparire nelle edicole (1977) Ken Parker presenta novità notevoli. Nel contenuto: estremo realismo delle situazioni, attenzione ai risvolti sociali ed economici della Storia, aggancio a tematiche contemporanee. Nella forma: contaminazioni col linguaggio cinematografico, “ripulitura” dei dialoghi da artificiosità tipiche del fumetto, allargamento (o sfondamento) della griglia delle vignette, funamboliche variazioni di registro narrativo dal dramma all’umorismo.

Con tutto ciò, Ken Parker non ha un grande successo di pubblico, e dura appena cinque anni.

Il successo arriderà a Dylan Dog (1986), uno dei pochi personaggi italiani destinato a sfondare le barriere del medium fumetto e a diventare fenomeno di costume.

Della novità di Dylan Dog rispetto ai suoi predecessori (quello immediato è Martin Mystère, del 1982) si è parlato abbondantemente. Ma non si è parlato altrettanto della sua continuità col passato.

Dylan Dog infatti ripropone una tipologia di personaggio tradizionale. Quello di Dylan e Groucho è, a ben guardare, l’abbinamento eroe–spalla di Martin Mystère e Java, che a loro volta riproponeva quello di Zagor e Cico. Che riproponeva quello di Tex e Kit Carson.

Quanto alla scrittura, quella di Sclavi è molto simile a quella del suo mentore Alfredo Castelli: dialoghi brillanti, scanditi in maniera impeccabile. Ma non è visibile uno scarto macroscopico tra i due stili, come invece avveniva per i dialoghi “realistici” di Berardi che si contrapponevano a quelli tradizionali di Tex, o perfino a quelli più “moderni” della Storia del West di D’Antonio.

Sclavi, tra l’altro, continua a usare i balloon di pensiero (usati da Berardi col proverbiale contagocce e poi progressivamente abbandonati). E fornisce a Dylan la sua esclamazione caratteristica: “Giuda ballerino!”, perfettamente in linea col “Peste!” di Tex e con i “Diavoli dell’inferno!” di Martin Mystère.

Infine, il lavoro di Sclavi sulla griglia bonelliana è molto meno dirompente di quello di Berardi e Milazzo su Ken Parker. Vero è che in Dylan Dog compare qualche sequenza di taglio cinematografico: ma Sclavi appare molto meno interessato a lavorare sulla griglia rispetto agli autori di Ken Parker, e perfino rispetto a Gino D’Antonio sulla Storia del West.

Tiziano Sclavi era un fan di Tin Tin, e non di Watchmen (che all’epoca non aveva nemmeno letto). Pochi lo sanno, ma a Sclavi si deve addirittura, alla fine degli anni ottanta, l’elaborazione di un “pentalogo” redazionale: cinque regole per fissare uno schema di impaginazione che stabiliva il numero (minimo e massimo) e la disposizione delle vignette sulle tavola. Schema che si sarebbe dovuto applicare a tutte le testate, da Tex a Dylan Dog, per renderle graficamente omogenee. Con l’avvento di Nathan Never l’idea di imporre il “pentalogo” fu abbandonata. (Con nostro grande sollievo, mi permetto di aggiungere).

Con ciò non voglio dire che Dylan Dog non era “nuovo” (gli elementi di novità c’erano eccome), ma che non era quella novità assoluta, la Creazione dal Nulla, il Big Bang che molti pensano. E voglio dire che la novità ben più dirompente (più “cercata”, mi viene da dire) di Ken Parker non ha avuto lo stesso strepitoso successo.

La realtà è che proporre delle novità è spesso, se non proprio facile, almeno non troppo difficile. Ben altra cosa è proporre novità che abbiano grande successo, e che influenzino la produzione successiva apportando cambiamenti significativi.

Ma il grande successo - è banale dirlo, ma diciamolo - non è mai programmabile a tavolino; né per la novità assoluta né per l’opera tradizionale che sfrutta formule già consolidate.

Il Dark Tex sognato da molti non sortirebbe affatto la rivoluzione operata su Batman da Frank Miller con Dark Knight. Servirebbe solo ad allontanare da Tex gran parte dei suoi lettori tradizionali e tradizionalisti. O, nel migliore dei casi, costituirebbe un caso eccezionale, un unicum che mai e poi mai potrebbe modificare l’essenza della serie mensile.

Per quanto mi riguarda, continuo a sostenere che non ha senso cercare paralleli tra le produzioni fumettistiche delle varie nazioni, nemmeno quelle occidentali (il Giappone non è nemmeno un altro pianeta. E' un'altra galassia). Le differenze sorpassano di gran lunga le somiglianze: nei contenuti, negli stili, nelle modalità di produzione, nel contesto culturale e sociale.

La crisi del fumetto italiano ha diverse cause, non una generica “mancanza di qualcosa di nuovo”. E uscire dal tunnel – ammesso che sia possibile – richiede molte manovre, da effettuarsi con le marce basse e con la dovuta calma.

Difficile confidare in un miracolo. E poi, oggi i miracoli li fanno solo i presidenti del consiglio, no?

giovedì 24 settembre 2009

DISEGNATORI ALLA GRIGLIA

Chiamarla “gabbia” suona malissimo, perché dà l’idea di qualcosa che imprigiona la creatività. Allora? “Composizione” della tavola? “Struttura” della tavola? Forse è un po’ più preciso “divisione” (in vignette) della tavola. A me piace “griglia”. La “griglia” della tavola. Per arrostirci sopra i disegnatori, ovviamente.

La “griglia” bonelliana è solitamente scandita su tre strisce, per un totale di cinque o sei vignette di larghezza variabile, ma quasi sempre della stessa altezza.

La cosa curiosa è che questo formato è nato casualmente, quando negli anni sessanta si decise di ristampare le vecchie storie di Tex comparse sugli albi “a striscia”. Fu scelto un formato–quaderno che consentisse di ristampare tre strisce su ogni pagina.

Quando gli albi a striscia cessarono le pubblicazioni e rimasero solo gli albi “formato–quaderno”, le storie vennero realizzate appositamente per quel formato. Anche se, va detto, molti disegnatori di Tex continuarono a lavorare “su striscia”, cioè non su un unico foglio, ma su strisce che poi venivano montate per formare la tavola vera e propria. Lavorando in questo modo, qualsiasi variazione delle vignette nel senso dell’altezza era impossibile.

Mi riprometto di dedicare un post apposito alla storia dei tentativi di allargamento/sfondamento della griglia ormai definita “bonelliana”. Per ora vorrei solo puntualizzare che se da sessant’anni quel tipo di impaginazione resiste, ci sono altri motivi oltre alla tradizione (i disegnatori ce l’hanno, volenti o nolenti, nel DNA).

Il formato comic book è più “alto” del formato italiano. Quattro strisce sul formato comic book (o sul formato del cartonato francese) fanno il loro effetto: nel formato Bonelli, invece, portano fatalmente alla compressione di alcune vignette a scapito di altre. Non che una impaginazione “all’americana” sia del tutto impraticabile nei nostri albi, ma richiede indubbiamente un certo studio. Alcune volte è inutile, altre volte è proprio impossibile.

La verità è che la tradizionale griglia di tre strisce è semplicemente più veloce da realizzare rispetto a una griglia “da comic book”, che richiederebbe un delicato gioco di incastri. E attenzione: non parlo solo della velocità di esecuzione del disegno, ma anche della sceneggiatura. Perché chiunque di noi scrittori è in grado di capire, scrivendo per una griglia di tre strisce, che cosa verrà fuori sulla pagina. Mentre chiedere al disegnatore una vignetta piccola o una striscia sottile e prevedere come questi eseguirà le istruzioni richiede doti precognitive di cui siamo sprovvisti; o, in alternativa, una collaborazione gomito a gomito.

Avendo scritto per pubblicazioni di formato comic book (per esempio Monster Allergy e X–Campus), mi sono trovato a fronteggiare una griglia con un numero di vignette superiore a quello della griglia bonelliana (in media 7–8 , contro le 5–6 bonelliane; un po’ come se fosse un “formato francese”).

Bene, mi era molto difficile visualizzare mentalmente la tavola, non sapendo se il disegnatore sarebbe riuscito a fare una striscia sottile là dove gliela indicavo, o se invece avrebbe privilegiato un’altra soluzione, modificando la griglia che io avevo previsto.

E la minore possibilità di visualizzare il disegno nel momento in cui si scrive, ovviamente, condiziona la scrittura. Alla fine mi sono limitato a indicare il numero di vignette senza specificare tassativamente quali erano “vignette lunghe”, e lasciando al disegnatore la possibilità di distribuirle sulla griglia in base alle sue necessità.

Vi prego di notare, però, che in Monster Allergy la fase del disegno era divisa in tre passaggi: lay–out, matite, chine. Un lavoro d’equipe, quindi, svolto da persone diverse.

Il fatto di avere già una visualizzazione della griglia su cui lavorare accelerava il lavoro del disegnatore; alleggerito così della fatica di studiare l’impaginazione, il disegnatore poteva concentrarsi sul disegno e solo su quello. Non dimenticate che Monster Allergy era di fatto un volume “alla francese”, anche se su dimensione ridotta, ed era una pubblicazione mensile. Sarebbe stato impossibile per un solo disegnatore reggere quel ritmo (48 tavole mensili).

Tornando alla “griglia” bonelliana: dopo tanti anni mi sono convinto che è impossibile alterarla in maniera sostanziale. Per imposizione dell’editore, certamente, ma anche e soprattutto per le difficoltà pratiche su elencate.

Ma infine: è utile alterarla? Scrivendo Caravan non ho sentito l’esigenza di un’impaginazione molto diversa da quella tradizionale. E quando ho sentito la necessità di utilizzare tavole con quattro strisce l’ho fatto (in qualche caso l’hanno fatto di loro spontanea volontà i disegnatori).

Temo che in molti casi i lettori identifichino la griglia come una “gabbia” molto più di quanto non facciano gli stessi autori, nell’illusione che modificare la griglia significhi ipso facto un fumetto più “moderno”, più cool.

Non è così, naturalmente. Un magnifico disegno rimarrà magnifico anche dentro una tavola di sei vignette quadrate tutte uguali. Il problema è il contenuto (narrativo) di quelle sei vignette. È su quel campo che si gioca la partita decisiva.

lunedì 21 settembre 2009

LA CAROVANA A BERGAMO

Sabato 26 settembre, a partire dalle ore 16, sarò presente alla fumetteria ComiXrevolution di Bergamo insieme a Stefano Raffaele, Werner Maresta ed Emiliano Mammucari.

Oltre all'incontro con il pubblico ci sarà anche una mostra di tavole originali di Caravan: potrete ammirare le copertine di Emiliano, le tavole di Stefano e di Werner, e anche gli studi dei personaggi realizzati da Elena Pianta.

L'indirizzo è:

Libreria ComixRevolution
Galleria Fanzago, 19
Bergamo, Italy

per ulteriori info

http://www.comixrevolution.com/forum
info@comixrevolution.com

Per Informazioni: info@comixrevoution.com

SENZA PAROLE

sabato 19 settembre 2009

PARLIAMO DI DISEGNO

Nove volte su dieci, se leggete su internet una recensione o un parere su un fumetto, lo spazio dedicato all’analisi del testo sarà tre volte superiore a quello dedicato al disegno, in genere liquidato sbrigativamente in poche righe. Perché accada questo, non lo so. Sospetto che sia per il fatto che si ritiene (giustamente) che per giudicare un disegno bisogna “capirne” di disegno. Mentre per giudicare un testo… beh, è sufficiente avere letto i capitoli in prosa di Watchmen, e questo basta per accreditare chiunque come Esperto di Letteratura tout–court.

Dal momento che io ho saltato a pie’ pari i capitoli in prosa di Watchmen, non ho nessun titolo per parlarvi di sceneggiatura, e vorrei parlarvi un po’ del disegno dei fumetti.

Antonio Serra dice che il tipico lettore di fumetti giudica un disegno “bello” quando può contare i peli dentro le narici dei personaggi. Un’esagerazione? Mica tanto. Il lettore medio giudica il disegno in base alla quantità di china sul foglio. Se ce n’è tanta vuol dire che il disegnatore si è applicato, quindi il suo sforzo è da lodare. Il disegno è bello.

Ma un giudizio critico serio sul disegno di un fumetto non può basarsi sulla quantità di china profusa nelle vignette. Il primo criterio valutativo dev’essere l’efficacia del racconto.

Il critico (o il lettore che pretende di esprimere un giudizio critico) dovrebbe chiedersi prima di tutto se il disegno racconta. E cioè porsi una serie di domande specifiche:

l’inquadratura è quella giusta per rendere la sensazione evocata dal testo?

I personaggi hanno un’espressività? Possiamo dire che “recitano”? Cioè: lo sguardo, il gesto, la postura veicolano un sentimento “raccontando” quella situazione, oppure ripropongono meccanicamente le figurine presenti nei manuali di disegno?

C’è una cura anche nell’abbigliamento dei personaggi? L’abbigliamento è verosimile? Contribuisce alla loro caratterizzazione?

Gli ambienti sono ricostruiti con sufficiente verosimiglianza – resa anche da pochi dettagli essenziali – o sono sfondi anonimi buoni per tutte le occasioni?

Verificata per prima cosa la complementarità del disegno col testo – cioè l’apporto del disegno nel contesto della narrazione – allora si potrà procedere a “scorporare” il disegno e a esaminarlo a sé.

Si potrà esaminare quindi la “grammatica” del disegno (c’è proporzione nelle anatomie? La prospettiva è corretta? Etc.). Eventualmente i più esperti potranno anche separare il giudizio sulle matite da quello sull’inchiostrazione. Quasi sempre le matite risultano più dinamiche, più “fresche” rispetto all’inchiostrazione. Ma può anche succedere che un disegnatore non proprio eccellente con le anatomie valorizzi il suo disegno con una inchiostratura vigorosa ed espressiva.

In seguito si potrà esaminare il segno. Qual è la caratteristica di questo disegnatore? Cosa lo rende personale (se c’è qualcosa che lo rende personale) rispetto ai suoi colleghi? Quali sono i suoi punti di forza? Il dinamismo dei personaggi? La ricostruzione degli ambienti?

Infine – per chi volesse davvero dedicarsi alla Critica, quella seria – non va dimenticato il contesto produttivo di un albo a fumetti. Perché dovrebbe essere evidente che non si può usare lo stesso metro di giudizio per una graphic novel e per un fumetto popolare sfornato con la velocità di una pizza al sabato sera. Al lettore giustamente importerà poco se il disegnatore ha dovuto lavorare in fretta perché era pagato una miseria. Ma il critico non può ignorarlo.

Il primo passo per far sì che il mondo esterno abbia rispetto per il medium fumetto è rispettarlo dall’interno. Così ci solleveremmo dal livello della chiacchiera da bar sport, e nello stesso tempo scenderemmo dalle nuvole degli sproloqui sull’Arte libera dal Mercato. Per ragionare finalmente con la testa sulle spalle e con i piedi per terra.

giovedì 17 settembre 2009

"DRAMA" O "NON DRAMA"?

In The Five-Gag Film, uno dei saggi contenuti in Bambi vs, Godzilla, David Mamet spiega il concetto di “distanza estetica” e di violazione della stessa, concetti legati al cinema rispettivamente come drama (forma drammatica) e pseudo-drama (riproduzione della forma drammatica).

Mamet individua un tipo di cinema “alto” legato all’esperienza drammatica nel senso classico del termine: una immedesimazione profonda che conduce lo spettatore alla catarsi. Esperienza che Mamet definisce come “appagamento del rinvìo dell’appagamento”, cioè l’attesa del finale come obiettivo ultimo dell’esperienza estetica.

L'esperienza “pseudo-drammatica” sarebbe invece un’esperienza di appagamento immediato, indotto nello spettatore da una serie di stimoli. Mamet la definisce come l’esperienza dello spettatore del circo. Nel cinema il suo equivalente più basso sarebbe il film pornografico; quello nella forma più “nobile” sarebbe il film di genere puro, thriller o commedia che sia. (Mamet parla di “stunt–movies”, e credo che si riferisca a film definibili genericamente come “spettacolari” o comunque di intrattenimento senza pretese).

Mamet individua come spia della differenza tra le due esperienze il diverso trattamento della “distanza estetica”; cioè quella condizione che spinge “naturalmente” lo spettatore ad accettare il patto narrativo per calarsi completamente nella vicenda. La “distanza estetica” permane nel drama, mentre è violata nello pseudo–drama.

La violazione della distanza estetica è l'imposizione allo spettatore del patto narrativo, e Mamet la spiega con due esempi. Il primo è una situazione tipica del thriller. Gli investigatori individuano un numero di telefono importante, e il numero viene mostrato allo spettatore con un primo piano del foglietto dove è stato scarabocchiato. Dato che siamo al cinema e il numero non può essere un numero esistente, il numero inizia con 555. Lo spettatore sa che non esistono numeri di telefono che iniziano con quella cifra, e il regista sa che lo spettatore sa, ma entrambi sanno che non si può fare altrimenti. Questa – dice Mamet – è una violazione della distanza estetica, cioè un elemento che spinge lo spettatore “fuori” dal dramma, impedendogli l’immedesimazione profonda che contraddistingue l’esperienza drammatica.

Un altro esempio: stiamo guardando un film che racconta la storia di un pianista, e la macchina da presa scende dal viso dell’attore a inquadrare le mani che si muovono sulla tastiera. Per Mamet anche questa è una violazione della distanza estetica. Lo spettatore non è più indirizzato verso la storia del pianista, ma ne sarebbe strappato fuori per subire una dimostrazione di protervia registica: “sì, sono proprio le sue mani, è l'attore che suona il piano, e non una controfigura”.

I grandi film come L'orgoglio degli Amberson o Il Padrino, o i film di Kurosawa (ma Mamet cita anche La ragazza delle balene) non hanno bisogno di questi trucchetti per calare lo spettatore dentro la storia.

Personalmente non ho difficoltà ad accettare la distinzione tra film drammatici (quelli che comunemente accettiamo come “grandi film”, la cui visione costituisce un’esperienza di vita) e film pseudo-drammatici (quelli che comunemente accettiamo come film di intrattenimento). Ma mi chiedo se la violazione della distanza estetica come formulata da Mamet sia una condizione sufficiente a distinguerli. Intanto, l’esempio del numero telefonico citato da Mamet vale per uno spettatore americano. Gli spettatori degli altri continenti, per la stragrande maggioranza, ignorano che quel numero telefonico è fittizio, e per loro la distanza estetica non è affatto violata. E, per quanto riguarda noi italiani, una clamorosa “violazione” come il doppiaggio non ci impedisce di apprezzare, che so, Barry Lyndon.

Ancora, Mamet ragiona in termini esclusivamente realistici, presupponendo che il massimo realismo sia l’unico criterio possibile per immergerci dentro una storia. Ma non lo è. Come possiamo applicare il criterio della distanza estetica (e vedere se vi sono violazioni della stessa) quando guardiamo Toy Story, The Nightmare before Christmas o La città incantata? O dovremmo concludere che qualsiasi film di animazione è esperienza pseudo-drammatica, quindi incapace di toccare le vette dell'Arte?

Di conseguenza non posso fare a meno di chiedermi se possiamo applicare questo criterio ai fumetti, ed eventualmente in quale modo possiamo farlo. Nel fumetto – o nell’opera letteraria in genere – è chiaro che il coinvolgimento è meno “fisico” e molto più mentale.

Qual è, allora, il fumetto Drammatico? Al di fuori di Maus o Watchmen, esiste un tipo di fumetto che possa considerarsi una profonda esperienza estetica come un film di Kurosawa?

E infine: siamo sicuri che il drama – anche quello indiscutibile di Maus e Watchmen – sia la forma più profonda di esperienza estetica che il fumetto può offrire? E se invece ipotizzassimo che questa esperienza consiste in tutt’altro? Perché, se Mamet avesse ragione, ammettendo di poter includere nel tempio dell’Arte le opere di Spiegelman e Moore, dovremmo escluderne Paperino e Snoopy, Braccio di Ferro e Asterix. Voi ve la sentireste?

venerdì 11 settembre 2009

UN'ALTRA INTERVISTA

Sul sito postcardcult.com. nuova intervista al sottoscritto, che mi dà modo di esternare su un po' di cose, da Dylan Dog al futuro del fumetto. Ecco, magari essere definito "uno dei principali autori del fumetto italiano" mi carica di un po' troppe responsabilità...

martedì 8 settembre 2009

DO YOU LIKE AMERICAN MUSIC?


"Vi piace la musica americana?" cantavano i Violent Femmes, cult band degli anni ottanta oggi in odor di separazione.

Se avete letto La storia di Carrie (e se non l’avete ancora letto non preoccupatevi, non è un grande spoiler), sapete che Stephanie ha incontrato i Femmes di persona.

La gaffe di Stephanie con Gordon Gano (compositore e cantante della band) è ovviamente frutto di fantasia, ma è verosimile: le canzoni di Gano hanno spesso generato equivoci, visto che alternavano storie brutali come la citata The Country Death Song (un uomo uccide la figlioletta), Key of 2 (abusi sessuali in carcere) a vere e proprie esplosioni di misticismo come Faith o Rejoice and be happy. Il contrasto tra le diverse “anime” di Gano era così stridente che tempo fa, nelle FAQ del sito della band, si specificava che le canzoni a tema religioso non erano affatto parodie.

Tuttavia in Caravan non si citano esplicitamente canzoni dei Femmes. Si parla d’altro. Si parla essenzialmente di folk. Dopotutto, non considerando la musica dei nativi, è il folk la vera american music.

E in tema di folk non poteva non essere citato Woody Guthrie, prima di tutto: Guthrie è presente nell’ideale “soundtrack” dell’albo con due canzoni famose scritte durante la Depressione. La prima è Do re mi, una canzone ironica, dall’andamento brioso. Carrie la canta a pagina 66.

“La California è il giardino dell’eden/ un paradiso da vedere o per viverci/ ma puoi credermi o no/ non la troverai così fantastica/ se ti manca il do re mi”.

Il ritornello si regge sul gioco di parole – intraducibile per noi– tra “do” e dough (la paga, quindi in generale il denaro) e il senso è che la California “non la troverai così fantastica, se non hai un soldo in tasca”.

Pastures of Plenty invece è maestosa e cupa, e la piccola June la ascolta con legittimo sconcerto a pagina 61. La canzone rievoca l’odissea dei braccianti che negli anni trenta lasciarono le pianure di una vasta porzione di Texas, Arkansas e Oklahoma, così devastata dalle tempeste di sabbia da essere chiamata Dust Bowl, “ciotola della polvere”.

“È un immenso e duro solco/ che le mie povere mani hanno tracciato/ i miei poveri piedi hanno viaggiato sulla calda strada polverosa/ caracollando verso ovest, lontano dalla Dust Bowl/ e i vostri deserti erano torridi, e le montagne gelate”.

Ma non c’è solo Guthrie, intendiamoci.

A pagina 63 Art Singer afferma di essere stato scettico su If I had a hammer, scritta nel 1949 da Lee Hays e Pete Seeger come inno nella lotta per i diritti civili: “Se avessi un martello/ martellerei di giorno/martellerei di sera/ su tutta questa terra/ per segnalare un pericolo/ per dare un monito/ martellerei l’amore tra i miei fratelli e le sorelle su questa terra”.

A Pete Seeger Art disse: “Sembra una canzoncina pop”. Sembra? Art è stato buon profeta, come potete vedere qua sotto.

If had a hammer non ebbe grande successo all’epoca della sua uscita, ma dieci anni dopo divenne un hit internazionale grazie all’interpretazione del trio Peter, Paul & Mary (che “sdoganò” anche Bob Dylan presso il grande pubblico), e fu incisa da molti altri artisti.

A pagina 68 Carrie canticchia Frankie & Albert, più conosciuta come Frankie & Johnny. Bene, questa canzone ha una storia che è quasi un romanzo. È una ballata folk tipica del repertorio dei cantastorie, e racconta di una donna (Frankie) che uccide il suo uomo (Johnny) perché la tradiva. Le prime versioni databili risalgono all’inizio del novecento, ma c’è chi sostiene che la canzone sia ancora più vecchia, che risalga addirittura all’ottocento, e che sia ispirata a un fatto di cronaca.

Com’è intuibile, la paternità della ballata è assai discussa, e ne esistono infinite versioni che cambiano non solo i versi, ma anche il nome del fedifrago in Albert, come nella versione appena accennata da Carrie: "Frankie was a good girl/everybody knows/she paid a hundred dollars/for Al's one suit of clothes".

Il ritornello invece è comune a quasi tutte le versioni: “He was her man/ but he done her wrong” (“Era il suo uomo, ma le fece un torto”).

Per quanto sia sconosciuta al pubblico italiano, per il pubblico americano Frankie & Johnny non è meno famosa di If I had a hammer, e non solo è stata incisa da molti cantanti, ma riadattata come brano jazz da Duke Ellington, Count Basie e altri.

Di recente l’abbiamo ascoltata in un film: Frankie & Johnny è la canzone “improvvisata” da Lindsay Lohan in Radio America di Altman (in realtà l’esilarante versione parodistica è scritta da Garrison Keilor).

E infine, su Wikipedia si legge che la canzone è stata perfino adattata a fumetti da Daniel Clowes. Non sono riuscito a trovare ulteriori informazioni. Chi sa qualcosa parli.

Per finire, andiamo a vedere come tutto è cominciato per Carrie. E cioè con Peace in the valley, che Carrie canta a pagina 56.

Questo gospel scritto da Thomas Dorsey ha avuto infinite versioni. Le più famose sono quelle di Elvis Presley, Johnny Cash e Sam Cooke (su You Tube ci sono tutte, perfino una versione live mugugnata dal grande Dylan). Tutte voci maschili, comunque. Ho trovato solo una interpretazione femminile, quella di Audrey Lapraik, giovanissima cantautrice texana, che propone una versione decisamente più “intima”. Chissà, magari Carrie la cantava proprio così.

giovedì 3 settembre 2009

GREYSTORM!


Bene, è ufficiale: tra un mese, appuntamento in edicola con Greystorm. Un po’ di notizie le potete già trovare sul sito della Bonelli, ma qualcosa voglio dirvela io, riallacciandomi a un interessante articolo sul blog Harry dice a proposito dell’autore americano Steve Rude. Molto attivo negli anni ottanta con la saga Nexus, Rude ha smesso di realizzare fumetti perché non si riconosce più nel fumetto attuale.

“Harry” scrive di Rude: “il mondo che lo ha sedotto da piccolo e che lo ha convinto a essere un professionista è cambiato: storie troppo “adulte”, dure, oscure, violente. Una china secondo lui avviatasi negli anni ’90 e non più interrotta.”

Credo che questo sia l’esatto pensiero di Antonio Serra. Anche lui rimpiange quel sense of wonder che non è più presente nel fumetto contemporaneo, nemmeno in rivisitazioni raffinate come La lega dei Gentiluomini Straordinari.

Con la differenza che Rude ha deposto le armi, mentre Antonio continua a combattere. Nel corso degli anni ha un po’ diradato la sua attività di sceneggiatore, ma non l’ha mai cessata del tutto (non foss’altro perché c’è spesso il suo zampino nei soggetti di Nathan Never e nell’operazione Universo Alfa).

Non so se condividere le osservazioni di “Harry” quando traccia un bilancio un po’ severo nei confronti dell’opera di Steve Rude. Sicuramente non le applicherei al lavoro di Antonio.

Greystorm va orgogliosamente controcorrente. Non solo non attinge all’immaginario televisivo e cinematografico predominante, ma nemmeno a quello letterario. Per intenderci, scrittori come Lansdale, Cormac McCarthy e altri considerati cool sono molto lontani dal gusto e dalla sensibilità di Antonio.

Michael Crichton potrebbe essere il riferimento ideale, ma Greystorm va controcorrente, appunto, e guarda ancora più indietro, a quello che di Crichton è stato il modello. Cioè l’archetipo romanzesco verniano/wellsiano e le sue varie declinazioni (compresa quella, passatemi il termine, “feuilletonistica”).

Detto ciò, se pensate di leggere un fumetto derivativo, prevedibile e ultracodificato vi sbagliate di grosso. Rispetto al modello bonelliano che prevede l’eroe (l’eroe–eroe, cioè un buono) sempre al centro dell’azione, Greystorm propone alcune novità. Prima di tutto il fatto che è corretto definire Robert Greystorm un protagonista, ma sarebbe decisamente improprio definirlo un eroe.

In secondo luogo, Greystorm sfodera (almeno nei primi tre episodi che ho letto) una compattezza grafica impressionante, e qui c’è un’altra novità non da poco. Greystorm è la prima mini–serie bonelliana co–firmata da sceneggiatore e disegnatore; quest’ultimo è Gianmauro Cozzi. È Cozzi ad avere sintetizzato la monumentale ricerca iconografica dello scrittore elaborando per la saga personaggi, costumi e macchine; con una particolare attenzione per queste ultime, tutte basate – puntualizzano orgogliosamente gli autori – su progetti effettivamente realizzati, quantomeno a livello di prototipo.

Infine: Greystorm non ha l’ambizione un po’ snob di certe rivisitazioni “colte” dei classici (come la succitata Lega di Alan Moore). Greystorm è un fumetto popolare genuinamente e orgogliosamente user friendly, leggero e leggibile.

Chissà cosa ne penserebbe Steve Rude…

martedì 1 settembre 2009

BAMBI CONTRO GODZILLA

Due letture che mi hanno accompagnato in quest’ultimo scampolo di estate.

The Devil’s Guide to Hollywood di Joe Eszterhas (per i distratti: lo sceneggiatore di Flashdance, Basic Instinct e altre cose) è semplicemente una raccolta di aneddoti su Hollywood. Quasi tutti bizzarri, divertenti, alcuni realmente illuminanti, ma nel complesso niente di indispensabile (a meno che non vi interessi sapere che Eszterhas è stato a letto con Sharon Stone, perché l’autore non manca di ricordarcelo continuamente).



Di Eszterhas è molto meglio Hollywood Animal, autobiografia avvincente e a tratti – non ci credereste mai – addirittura toccante. Ma non è questa la mia seconda lettura estiva: è Bambi vs. Godzilla, una raccolta di brevi saggi di David Mamet, commediografo, sceneggiatore e regista sulla breccia da circa trent’anni (citando alla rinfusa: Il verdetto, Homicide, La casa dei giochi, Americani). È una lettura decisamente più “densa”, e a tratti non facilissima se non avete una buona conoscenza dell’inglese.



Il libro di Mamet offre molti spunti per riflettere, e praticamente ognuno dei saggi che lo compone meriterebbe un commento. Mi limito a due dei primi, intitolati rispettivamente Producers e The development process.

Mamet parte da una constatazione molto banale: ha contato sulla locandina di un film i nomi di diciotto produttori. Da qui prende le mosse per arrivare a dire una verità che si ha paura di dire a voce alta. E cioè che Hollywood i film non si fanno più per gli spettatori. Si fanno per i produttori.

Cosa significa? Significa che gli studios sono diventati colossi economici così giganteschi da capovolgere completamente una dinamica di produzione che fino a una ventina d’anni fa era molto lineare: il produttore rischiava dei soldi – soldi propri – per fare un film e avere un ritorno economico (che nella maggior parte dei casi otteneva). Il produttore aveva interesse a
a) fare film che ottenessero grandi incassi. Più pubblico li vedeva, maggiore era l’incasso.
b) fare molti film. Più film, più soldi.

Elementare, no?

Bene, questa dinamica, almeno per quanto riguarda gli studios, è cambiata. Il produttore non è più “quello che ci mette i soldi”, ma quello che raccoglie i finanziamenti. Negli studios il produttore è il primo anello di una catena composta da tutti quelli che si occupano, a vario titolo, dello sviluppo del progetto. Una catena che prima di arrivare agli anelli decisivi, quelli che materialmente fanno il film – cioè regista, attori, maestranze – comprende una lunghissima sequenza di co–produttori, produttori esecutivi, supervisori, assistenti, assistenti degli assistenti, etc.

Gli studios sono diventati come dinastie monarchiche. Centri di potere che, proprio come le famiglie reali, fanno proliferare nella corte quelli che Mamet definisce senza mezze misure “ciambellani, cortigiani, sicofanti”. Individui che legano le proprie fortune non a quelle dei film prodotti, ma a quelle dei regnanti. Regnanti che ogni cortigiano ha interesse a blandire, lusingare, assecondare, servire supinamente.

Di qui il risultato paradossale: il film non si fa più per il pubblico. Il film si fa per mettere in piedi un meccanismo che distribuisce denaro a tutti gli anelli della catena… e non necessariamente a quelli indispensabili. In effetti, per produttori associati ed executives vari non è nemmeno indispensabile fare arrivare il film nelle sale. L’importante è essere pagati per il lavoro che svolgono. Perfino se lo svolgono male. O fanno finta di svolgerlo. O lo fanno svolgere agli altri. A loro interessa il development, lo sviluppo del progetto, non tanto il progetto in sé. Più lungo e laborioso è il development, più il cortigiano può attingere ai forzieri di corte. Ed ecco perché i costi dei film crescono a dismisura. E crescono anche perché si fanno meno film, dato che agli executives va bene così: ci sono più soldi a disposizione per ogni singolo progetto.

E i film prodotti da questa bulimia sono quello che vediamo: blockbuster oversize, ripetitivi, insulsi, fatti solo per creare un brand o per sfruttarne uno già esistente.

Il quadro che dipinge Mamet a tratti fa sorridere, ma in realtà è agghiacciante, e spiega chiaramente il baratro creativo in cui è sprofondato il cinema hollywoodiano. D’altronde Peter Biskind, nell’eccellente Easy Riders Raging Bulls, aveva già individuato alla radice del problema il cambiamento del meccanismo produttivo al crocevia fra il decennio degli anni settanta e gli ottanta.

La lotta della creatività genuina contro l’intrattenimento da luna park, non solo a Hollywood, è una lotta impari. È Bambi contro Godzilla. Mamet non indica una via d’uscita nel suo libro. Ma almeno la sua filmografia – da La casa dei giochi fino alla serie televisiva The Unit – è quella di uno che non ha cessato di combattere.