mercoledì 30 dicembre 2009

IPSE DIXIT


Non c'è modo di vincere al gioco della critica. Se si ha un briciolo di cervello si abbandona questa speranza illusoria. Si fa il film che si reputa attraente o interessante, e lo si fa al meglio delle proprie possibilità. Se i critici lo apprezzano, benissimo. Se non lo apprezzano, lasciamoli perdere.

Robert Aldrich

mercoledì 23 dicembre 2009

MUST BE SANTA POGUES

Ormai vicino alla settantina, Bob Dylan sembra avere fatto pace con il suo passato e avere accettato il suo status di icona del ventesimo secolo. Nel ventunesimo può fare quel che gli pare: ha fatto un (altro) film stravagante, uno spot pubblicitario per una linea di lingerie, uno per la Apple, e ha affidato alla catena Starbucks la commercializzazione dei leggendari "Gaslight Tapes" finora reperibili solo come bootleg.

A questo punto gli mancava solo una raccolta di canzoni natalizie. Ha fatto anche questo. Intendiamoci, tutte cose di cui noi appassionati avremmo fatto volentieri a meno, ma His Bobness è ormai al di là del bene e del male. Qui reinterpreta un classico natalizio, una canzoncina per bambini dal titolo Must Be Santa, e sembra rifarsi ai Pogues sia nell'arrangiamento musicale sia nelle atmosfere del video.

Per una volta facciamo a meno della malinconia natalizia di John Lennon, e permettetemi di augurarvi un felice e spensierato Natale.

martedì 22 dicembre 2009

UNA CANZONE PER NATALE



FAVOLA DI NEW YORK

Era la vigilia di Natale,
nella cella che custodiva gli ubriachi,
un vecchio mi disse: “Al prossimo non ci arrivo”
e poi cantò una canzone,
The Rare Old Mountain Dew
E io voltai la faccia
e sognai di te.

Ho avuto fortuna alle scommesse,
è venuta fuori diciotto a uno,
ho la sensazione
che quest’anno è per me e per te.
Perciò buon Natale,
ti amo, piccola,
vedo arrivare un tempo migliore
che vedrà i nostri sogni avverarsi.

- Hanno automobili spaziose come bar,
hanno fiumi d’oro,
ma qui il vento ti pugnala,
non è un posto per vecchi.
Quando hai preso la mia mano per la prima volta,
in una fredda vigilia di Natale,
tu mi hai promesso,
che Broadway era là ad aspettarmi.

Eri bellissimo -
- E tu pure eri bella,
la regina di New York City,
quando l’orchestra finì di suonare,
la gente chiese il bis.
Sinatra swingava,
ogni ubriaco cantava,
ci baciammo all’angolo di una strada,
e poi ballammo attraversando la notte. -

I ragazzi del coro della polizia
cantavano Galway Bay
e i rintocchi delle campane annunciavano
il giorno di Natale.

- Sei un buono a nulla, un relitto
- E tu una vecchia puttana tossica
sempre stesa sul letto come un moribondo sotto flebo
- Spazzatura ambulante, smidollato,
frocio da due soldi,
Buon Natale un accidente,
prego Dio che sia l’ultimo con te.

- Potevo essere qualcuno, io!
- Seeh, come tutti.
Mi hai portato via i sogni
dalla prima volta che ti ho visto.
- Ma io li ho tenuti con me, bambina,
li ho messi insieme con i miei,
e da solo non posso farcela,
i miei sogni li ho costruiti intorno a te.

I ragazzi del coro della polizia
cantavano Galway Bay,
e i rintocchi delle campane annunciavano
il giorno di Natale.

Shane MacGowan & Jem Finer, 1988

Fairytale of New York è la canzone di Natale più bella (e più triste) degli ultimi trent’anni (trovate qui la versione con il testo). Tra l’altro, un modo per ricordare la brava e sfortunata Kirsty McColl, a nove anni dalla sua scomparsa. Due settimane fa il comitato che chiedeva giustizia per la sua morte si è sciolto, dopo l’archiviazione definitiva del caso da parte delle autorità messicane.

Prometto che per Natale ci faremo auguri “americani” con qualcosa di più allegro.

giovedì 17 dicembre 2009

COVER ME part 3

Nel blog di Emiliano avete già visto la cover scartata per il numero 8 di Caravan, Il gioco della guerra. L’idea mi era venuta ricordando una sequenza del film Pink Floyd – The Wall, di Alan Parker. Nella sequenza accompagnata dal brano When the tigers broke free si intrecciano essenzialmente due scene. Quella del padre di Pink nella battaglia di Anzio e quella del piccolo (alter ego dell’autore Roger Waters) che ritrova in un cassetto alcuni oggetti del padre, morto proprio in quella battaglia. Il bambino accarezza con reverenza i cimeli, e poi si prova il berretto guardandosi allo specchio. E la sua immagine riflessa diventa quella di suo padre. Qui sotto trovate la versione sottotitolata in italiano, e qui la scena completa (con la prima strofa della canzone e le scene della battaglia di Anzio).

Mi sembrava una scena perfetta per la copertina del Gioco della guerra, che con Emiliano avevamo adattato alla nostra protagonista, la soldatessa Mary Jane Kimble.



Purtroppo l’idea è stata bocciata. Ora mi verrebbe quasi da dire “per fortuna”, perché la cover approvata (più azzardata per gli standard compositivi bonelliani) mi sembra molto più spettacolare.

Questa copertina è quasi una conseguenza della prima idea, perché si ispira a un altro momento della stessa sequenza.

Pink è in chiesa. Mentre sua madre prega, il bambino gioca silenziosamente tra i banchi con il modellino di un aereo. La scena contrappone, con cupa ironia, la guerra vera e il gioco della guerra.

In seguito mi sono ricordato di una scena analoga – forse anche più simile alla nostra cover – nell’Impero del sole di Spielberg (1987). Il piccolo Jamie sta giocando con il suo aereo giocattolo (il modellino di un Mitsubishi Zero), quando uno Zero reale passa rombando nel cielo sopra di lui. Non sono riuscito a trovare la scena intera, ma nel trailer del film visibile su You Tube se ne intravede un momento.

E per chiudere restando in argomento musicale, vi lascio con un video di anteprima, sempre per il numero 8. Dopo l'uscita dell'albo torneremo sull'argomento.




lunedì 14 dicembre 2009

IL DUOMO DI NOTTE



Piroette di sabbia e le guglie del Duomo
differenza tra pietra e le voglie di un uomo
che ha per vita una gabbia
liberata dal sesso, gonfia di verità,
partorita con gioia nel lontano ricordo,
con le doglie sincere di una maternità
che alla luce, di notte, nella piazza e con rabbia
ha donato, confusa, il suo figlio balordo.

E la vera ragione delle notti impegnate,
dei romanzi creduti, degli amori sbagliati
non la devi cercare dentro i mari delusi
che ti scusano i sogni, le ignoranze, i delitti.
Il suo posto lo trovi nella ruota del giorno,
nello scrigno privato di egoismi e di abusi
e le mani affrettate a cercare gioielli
nella sabbia han trovato, confuse, relitti.

Il dispetto felice sulla voglia che nasce,
contrappeso all'istinto, alla cosa che piace,
la condanna del tempo, della gente del posto,
e il ritorno dal viaggio che ti ha fatto sperare
e la stella seguita si è stancata di darti
e brillare.

Alberto Fortis, Il duomo di notte (1979)

domenica 13 dicembre 2009

SCUOLA DI FUMETTO CON EMILIANO

La Scuola di Fumetto del titolo è la rivista. Il numero ora in edicola ospita uno sketchbook del nostro Emiliano Mammucari. E molte altre cose interessanti...

sabato 12 dicembre 2009

MERRY X-CAMPUS-MAS!


Lunedì 14 sarà in tutte le edicole, in allegato alla Gazzetta dello Sport e al Corriere della Sera, il volume 39 della collana Super Eroi - Le Grandi Saghe, dedicato a X-Campus (testi di Francesco Artibani e del sottoscritto), di cui abbiamo già parlato su questo blog. Sul sito uBC è pubblicata un'anteprima.

QUANDO I FUMETTI NON ERANO PICCOLI


Rizzoli ha appena pubblicato un librone che raccoglie un’antologia del Corriere dei Ragazzi, curata da Gianni Bono e Alfredo Castelli. Imprescindibile per i veri appassionati di fumetti, e per chi voglia conoscere la Storia (con la S maiuscola) del fumetto italiano. Fatevelo regalare o fatevi un regalo voi stessi. Non costa pochissimo (quasi 35 euro), ma sono soldi ben spesi. Non parlerò del mitico CdR (ne ho già parlato nel mio sito, anni fa), ma vorrei esprimere tutta la mia ammirazione per Mino Milani, un nome oggi poco noto ai lettori di fumetti.

Perché rileggendo quelle storie che avevo letto da bambino (avevo una decina d’anni o giù di lì) ho scoperto che me le ricordavo tutte. E non perché ho una buona memoria (non ce l’ho, in effetti). Il fatto è che quelle storie non erano le solite storie per bambini. Milani scriveva per i più piccoli senza considerarli tali, ma adulti in divenire. A quei tempi non era il solo, certo (l’approccio alla narrativa per l’infanzia non era quello odierno, ammorbato dal politicamente corretto), ma Milani è stato lo scrittore più incisivo, almeno nel racconto d’avventura. E certamente è stato il più prolifico: una inarrestabile macchina da guerra del racconto, tanto da utilizzare altre due firme (Eugenio Ventura e Piero Selva) per non monopolizzare il giornale con il suo nome.

Negli articoli che corredano l’antologia rizzoliana, l’allora direttore Giancarlo Francesconi ricorda Milani (che, è bene ricordarlo, è ancora fra noi e porta benissimo i suoi ottantun anni) come un tipo di poche parole, che non amava le chiacchiere e aveva per la scrittura una dedizione totale.

Colpisce ancora oggi, in quei racconti, la prosa asciutta, completamente priva di leziosaggini. Il fluire di una narrazione semplice, “classica”, che pure non indulgeva mai nello sterotipo. E, soprattutto, la capacità di raccontare senza smarrire un punto di vista che era insieme la visione dell’autore e la convinzione etica dell’uomo.

Sarà anche un luogo comune dire che ai vecchi tempi era tutta un’altra cosa. Ma non è un luogo comune dire che di certi fumetti e di certi scrittori, oggi, si è perso lo stampo.

martedì 8 dicembre 2009

THE CHEROKEE MORNING SONG



We n' de ya ho, we n' de ya ho...

The Cherokee Morning Song
l'ho trovata nel corso delle mie peregrinazioni in Rete, alla ricerca di materiale sui Cherokee per Caravan numero 7. Ho poi scoperto che una versione di questa canzone è stata inclusa nell'album Music for the Native Americans, del grande Robbie Robertson.

In attesa che la tecnologia renda possibile inserire l'audio nei fumetti, potete sempre leggere la conclusione dell'albo tenendo in sottofondo questa canzone.

giovedì 3 dicembre 2009

PUNTI DA PONDERARE

Molti anni fa, quando ancora stavo imparando l’abc del fumetto, mi capitò di leggere una curiosa affermazione di Alfredo Castelli: “ogni tavola dovrebbe chiudersi con un punto interrogativo o esclamativo”.

Dovetti andare a guardarmi alcuni albi per capire cosa volesse dire. Perché ovviamente ci sono pagine che non si concludono con un punto, ma, per esempio, con dei puntini di sospensione. O con una vignetta muta. Chiaramente la frase di Castelli non era da interpretare alla lettera. Il decano degli sceneggiatori italiani voleva dire che l’ultima vignetta di una tavola non dovrebbe spezzare una scena. E nemmeno spezzare un dialogo.

Per intenderci, se Jack sferra un pugno a Bill, il pugno non dovrebbe trovarsi sulla tavola successiva, e dovrebbe raggiungere il mento di Bill – sock! – nell’ultima vignetta.
Oppure, se l’ispettore Hotchkiss sta rivelando il nome dell’assassino (“Perché a uccidere Mary Ann non è stato Alan Carter, ma…”), sarebbe meglio che la rivelazione non avvenisse nella tavola successiva.

Se avete una scena con Jim che sta morendo, e che sta raccomandando al suo amico Billy di dire a Susan che lui l’ha sempre amata, evitate di prolungare l’agonia del povero Jim fino alla tavola successiva. Fategli esalare l’ultimo respiro nell’ultima vignetta della tavola. Darà un senso di “compiutezza” alla scena.

Insomma: si parla di punto “metaforico”. Di un beat (battito), come dicono i manuali di sceneggiatura americani, che chiude non necessariamente l’intera scena, ma un momento della scena.

Vi avviso: almeno all’inizio, chiudere “col punto” è molto più semplice a dirsi che a farsi. Vi ritroverete sempre con una vignetta in più e vi sembrerà impossibile tagliarla. Ma non è impossibile. È solo questione di abitudine. Se avrete la fortuna di scrivere per anni, questo modo di scandire la scena alla fine vi sembrerà naturale, e addirittura troverete difficile modificarlo.

La chiusura “col punto”, ovviamente, spesso coincide con la chiusura in toto della scena, il che porta a uno stacco di tempo/luogo con la prima vignetta della tavola successiva. In questo modo il passaggio acquista fluidità. Cambiando pagina, il lettore è condotto in maniera “naturale” al cambio di scena.

Niente vieta, ovviamente, di “staccare” su una nuova scena a metà tavola. Ma il geniale Castelli mi spiegò, anni dopo, che dietro questa “sistematizzazione” degli stacchi non c’erano solo ragioni di ritmo narrativo. Scrivendo molte sceneggiature contemporaneamente, gli capitava spesso di intervenire “a posteriori” sulle storie spostando intere sequenze. Ovviamente, se una scena cominciava con la prima vignetta della prima tavola e si chiudeva con l’ultima vignetta dell’ultima tavola, lo spostamento era molto più facile. Si trattava semplicemente di sfilare quel blocco di tavole dal mucchio e metterle più avanti o più indietro, dove era necessario. Al massimo si ritoccava qualche didascalia o qualche parola di testo.

Ma se una scena “attaccava”, per esempio, con la terza vignetta di una tavola, lo spostamento era problematico: in quel caso si dovevano prendere le forbici, ritagliare materialmente mezza tavola, e poi disegnare ex novo tre vignette per dilatare la chiusura della scena precedente. Un procedimento che richiedeva il suo tempo, e che aveva i suoi costi.

La chiusura della scena a fine tavola oggi è procedura standard per tutti gli sceneggiatori, e probabilmente fa parte di quel DNA bonelliano di cui si è già parlato in questo blog.

lunedì 30 novembre 2009

UNA BOTTA DI MALINCONIA



Now I been out in the desert,
just doin' my time
Searchin' through the dust,
lookin' for a sign
If there's a light up ahead
well brother I don't know
But I got this fever burnin' in my soul
Further on up the road
Further on up the road
Further on up the road
Further on up the road
One sunny morning
We’ll rise I know
And I’ll meet you further on up the road.

Bruce Springsteen, Further On Up the Road

Perdonatemi. Ho appena scritto la parola Fine sulla tavola 94 del numero 12 di Caravan. E la fine di ogni viaggio porta un po’ di malinconia.

venerdì 27 novembre 2009

CATTIVI ESEMPI...


...di informazione, si intende.

Ho la tentazione di gioire malignamente per questo titolo. Una volta tanto non sono i fumetti a traviare il mostro di turno. L'articolo è a questa pagina. Visti i dati d'ascolto di CSI, immaginate quanti mostri si annidano nell'ombra, pronti a colpire...

RACCONTARE I RACCONTI

ATTENZIONE: questo post contiene spoiler su Caravan n. 4, La storia di Carrie

Far dialogare un personaggio è un affare più complicato di quello che può sembrare. Ma è ancora più complicato farlo raccontare. In Caravan ci sono spesso racconti. E a volte anche racconti nel racconto (cioè si vede in flashback un personaggio che racconta, facendo scattare un altro flashback). Ogni volta che visualizziamo il racconto, e le parole del narratore passano dai balloon alla didascalia, dobbiamo affrontare diversi problemi.

Il primo è squisitamente grafico/narrativo: occorre decidere quali momenti del flashback visualizzare, e quando tornare al tempo presente. Chiaramente c’è (beh, dovrebbe esserci) un criterio logico per questi passaggi. Il secondo problema riguarda proprio la tecnica di scrittura. Quando un personaggio racconta è praticamente impossibile adottare un “parlato” realistico. Nella realtà quotidiana tutti siamo capaci di raccontare cosa ci è successo ieri mentre andavamo alle Poste o facevamo manovra per uscire dal parcheggio. Ma lo raccontiamo magari a spizzichi, cominciando una frase e poi mollandola a metà, interrompendoci per dire qualcosa che ci eravamo dimenticati di dire prima, e così via.

Nei fumetti, riprodurre questo linguaggio parlato non è possibile (se non in misura molto, molto ridotta). Ogni personaggio di un fumetto che racconta qualcosa, perciò, lo fa da narratore consumato. Usa quasi sempre il passato remoto, e lo fa sempre con una consecutio impeccabile.

Nel numero 4, La storia di Carrie, Massimo racconta a Stephanie di come si era autoconvinto (a torto) che Adrian Richards non costituisse una minaccia.

Se Massimo fosse una persona reale, probabilmente liquiderebbe l’incidente in poche parole, come farebbe chiunque di noi: “Quella sera non ho chiuso bene la porta del garage ed è entrato il gatto dei Leblanc. Ha fatto rumore e mi sono spaventato, perché pensavo che fosse Adrian Richards che veniva a menarmi”.

Invece Massimo introduce il suo racconto da narratore consumato: “Ti racconto una cosa… una cosa che mi è successa una sera, prima dell’incendio dell’auto”. 
Equivale al classico “c’era una volta…”. Poi Massimo dispone il setting della sua storia, spiegando a Stephanie (e contemporaneamente al lettore) perché era solo in casa: “Davide era al concerto con Clyde e tu eri al cinema con Ellen, ti ricordi?”

Stabilita la premessa, scatta la visualizzazione del flashback, che comincia in medias res da una telefonata misteriosa, muta. Massimo racconta poi di Chip che ringhiava. E poi racconta di essere uscito, di avere gridato, di avere impugnato un rastrello per non trovarsi indifeso davanti a un’eventuale aggressione. Insomma, “costruisce” il suo racconto scena per scena. E ovviamente ritarda la rivelazione finale, al punto che Stephanie sbotta: “Non raccontarmelo come se fosse un film di Hitchcock!”

L’uscita di Stephanie qui ha due motivazioni. Una è puramente narrativa, di verosimiglianza della scena (Massimo non si decide a rivelare cos’è successo), e una “metanarrativa”, se vogliamo. È una strizzata d’occhio al lettore, che accetta l’artificio, e che nel finale del racconto di Massimo riconoscerà un topos cinematografico: la tipica “scena del gatto” (canonizzata, credo, in Alien e ripresa poi in innumerevoli thriller).

L’uso del passato prossimo nella rievocazione di Massimo – anche perché ci si riferisce a un evento recente – conferisce una certa fluidità al racconto. E il fatto che l’aneddoto sia semplice aiuta a tenere il tutto nei binari di una conversazione “naturale” (pur con una costruzione “thrilling” dell’aneddoto, che in sé non è molto verosimile).

Più avanti, invece, comincia il lungo flashback sull’infanzia di Carrie. Jolene racconta a Davide, e col suo racconto introduce il racconto di sua zia June. E qui non c’erano alternative. Il racconto si riferisce a fatti di molti anni prima, e ho dovuto usare il passato remoto. Inevitabilmente, il racconto assume un tono ben poco colloquiale, sa di “scritto”. Per attutire questo effetto ho cercato di usare un linguaggio quanto più possibile semplice. June non è una letterata, e sta parlando con sua nipote, non a una conferenza. Quindi: frasi brevi, niente aggettivi davanti al sostantivo, e soprattutto niente proposizioni incidentali (cioè niente obbrobri del tipo: “e il risultato fu che, dal momento che non poteva più picchiare la mamma, papà cominciò a picchiare Carrie”.

D’altro canto, usare un linguaggio troppo colloquiale nel racconto di June sarebbe andato a discapito dell’atmosfera del racconto. Il lettore qui non deve apprezzare l’eventuale slang del personaggio, ma immergersi in una storia molto più lunga e articolata della “scena del gatto”. Proprio per questo il racconto di June doveva essere chiaro e sintetico, e trasportare il lettore da una vignetta all’altra in maniera fluida (in alcune vignette, visto che il disegno di Maresta raccontava con efficacia, ho tagliato completamente le didascalie).

Alla fine sono abbastanza soddisfatto della storia di Carrie. Mi pare – ma ai lettori l’ultima parola – di avere raggiunto un certo equilibrio tra le esigenze della verosimiglianza e quelle della narrazione.

In altri albi, come il numero 8, che leggerete tra due mesi, i flashback sono più brevi e la “compressione” del racconto nelle didascalie è maggiore. In questo caso è inevitabile che il tono del racconto assomigli più a una forma scritta che a una forma parlata.

È anche vero che nel fumetto non si fa caso più di tanto a queste cose. Si dà per scontato che la voce del personaggio che racconta e quella dell’autore diventino un tutt’uno. Io non mi sono ancora rassegnato a questo. E anche se dubito che una soluzione al problema esista, continuo a cercarla.

domenica 22 novembre 2009

BRUMOSI POMERIGGI INVERNALI

Certe volte, in un brumoso pomeriggio d’inverno, si accende la tivù e si guarda il primo film che capita, quello che passa il convento. Qualche giorno fa Sky ha passato The Hitcher, il remake. Purtroppo.

Per chi non l’avesse visto, il The Hitcher (lett: “L’autostoppista”) originale è uno dei più bei thriller degli anni ottanta, scritto da Eric Red per la regia di Robert Harmon e interpretato da Rutger Hauer, C. Thomas Howell e Jennifer Jason Leigh. La trama è semplice: il giovane Jim (Howell) deve portare un’auto in vendita da uno stato all’altro, e in una notte di pioggia raccoglie un autostoppista (Hauer). Mal gliene incoglie, perché l’uomo – che si presenta col nome di John Ryder – è uno psicopatico assassino, che ha già ucciso e ucciderà ancora. E getterà la colpa sul ragazzo, che si troverà braccato dalla polizia. Solo la cameriera di un diner (Jason Leigh) si offrirà di aiutarlo. Ma Ryder sta giocando con Jim come il gatto col topo. E per uscire dall’incubo il ragazzo deve pagare un prezzo molto alto…

Il remake è del 2007, diretto da Dave Meyers e scritto da Jake Wade Wall ed Eric Bernt. Mi sono segnato i nomi, così in futuro eviterò film scritti da costoro. Anche se il nome di Michael Bay nella produzione avrebbe già dovuto indurmi in sospetto. The Hitcher non è nemmeno un remake: è un ricalco dell’originale, con alcune inquadrature letteralmente clonate dal film di Harmon. E lasciamo perdere i tocchi “alla Michael Bay”, con una sequenza fracassona di auto incidentate a suon di rock, o il killer che si allontana dall’esplosione al ralenti: dopo la fulminante Cool guys don’t look at explosions di Will Ferrell non è possibile trattenersi dal ridere di fronte a banalità del genere.


Oppressi dai sensi di colpa, Bay, Meyers e compagnia devono essersi spremuti le meningi per differenziare in qualche modo il loro ricalco dall’originale. E cosa fanno? Evidenziano lo splatter dove si può, per cominciare. Mostrare quello che il film originale non mostrava (ricordate la scena del camion nel parcheggio del motel? Ecco, sì, quella). Ma il colpo di genio dei ricalcatori è un altro: inserire la coppia fin dall’inizio. Nel vecchio film Jim incontra casualmente Nash, la ragazza, dopo mezz’ora. Nel film di Meyers, Jim (Zachary Knighton) e Grace (Sophia Bush) sono due fidanzatini. Lui dà il passaggio al losco autostoppista (Sean Bean), anche se lei, voce della ragione, gli implora di non farlo. Senza spoilerare troppo, vi dico che il succo della faccenda è l’inversione dei ruoli fra il ragazzo e la ragazza. Da un certo punto in poi è Grace la protagonista, fino alla fine.

È un cambiamento netto rispetto al film dell’86? Certo. Un cambiamento che vanifica completamente il senso originale della storia.

The Hitcher
– quello vero – si apre come la più classica delle favole gotiche, con la trasgressione di un divieto. “Mia madre mi dice sempre di non farlo”, scherza Jim quando prende a bordo Ryder. E Ryder è comparso poco dopo che Jim ha rischiato di addormentarsi. O forse – spingiamo l’interpretazione un po’ più in là – Jim si è realmente addormentato, materializzando Ryder dal più oscuro degli incubi (più avanti vedremo che la polizia non riuscirà mai a identificare l’assassino). Dopodiché, la storia diventa una faccenda tutta maschile. C’è in ballo la virilità. Non sei un vero uomo se non mi ammazzi, dice in sostanza John Ryder al malcapitato Jim. Ryder strapazza Jim anche fisicamente, e c’è un sottinteso (omo)sessuale, anche se mai “gridato”, in diverse scene (come quella di Ryder che prende il posto di Jim sul letto del motel, o nel faccia a faccia che si conclude con uno sputo).

Il remake si apre con lo spiaccicamento di una zanzara sul parabrezza dell’auto dei ragazzi. Possiamo fingere di non accorgerci che questo è l’orrido foreshadowing che dovrebbe anticipare il succo del film, okay. Ma non si può ignorare che Grace diventa l’ennesima tough chick con la pistola e con gli short minuscoli, Lara Croft docet. E allora alla fine il senso qual è? Nella migliore delle ipotesi, uno statement femminista in clamoroso ritardo, a più di vent’anni dalla Clarice del Silenzio degli innocenti e dalla Ripley di Aliens. Cose viste e straviste, insomma. Nell’ipotesi peggiore non c’è nessun senso: c’è solo la riproposizione banale dell’eroina da teen movie, che si salva soltanto perché è cavalleresco – da parte degli sceneggiatori – salvare la ragazza e far contente le giovanissime spettatrici. Ovviamente, a condizione che l’eroina mostri le cosce a beneficio dei maschietti.

sabato 21 novembre 2009

TEMPO, TEMPO, TEMPO...

Time, time, time, see what's become of me
while I looked around for my possibilities
I was so hard to please
but look around, leaves are brown now
and the sky is a hazy shade of winter.

(Paul Simon, A hazy shade of winter)


Quando rileggo La Storia del West non posso fare a meno di chiedermi come facessero gli autori a documentarsi. All'epoca (gli anni a cavallo tra i decenni degli anni sessanta e dei settanta) non c'era internet. Certi libri li trovavi solo in librerie ben fornite e nelle biblioteche, a meno di non avere un colpo di fortuna rovistando nelle bancarelle dei mercatini. Se scrivere materialmente un fumetto richiedeva il suo tempo, la ricerca della documentazione ne richiedeva molto di più.

Un luogo comune dice che oggi tutto è "a portata di click", ma il risparmio di tempo è molto relativo. E sarà anche vero che "su internet si trova tutto". Il problema è che devi cercarlo. Scrivendo Caravan, non mi sono reso conto di quanto tempo richiedessero certe ricerche fino a quando non ho scritto il numero 6.

A volte, certo, la memoria ti soccorre: per esempio, ricordavo perfettamente che Daryl Hall e John Oates, oggi pressoché dimenticati in Italia, all'epoca erano in cima alla top ten negli USA (forse qualcuno ricorda Man Eater, riproposta pochi anni fa da Nelly Furtado: "oh oh here she comes, watch out boy, she'll chew you up"...). Perfettamente normale, quindi, che una Stephanie ventenne ne andasse matta.


E poi è stato semplice verificare che La zona morta di Stephen King (che Bertrand legge in francese, con il titolo L'accident) è del 1979. Quindi è verosimile una ristampa posteriore all'uscita del film di Cronenberg, che è del 1983. Mi spiace un po' che nessuno abbia notato che Bertrand sceglie accuratamente le sue letture. Anche il protagonista della Zona Morta, infatti, deve uccidere un politico.

La sveglia di Lupo Alberto è un anacronismo del tutto volontario. Nel 1985 Lupo Alberto aveva già la sua pubblicazione (nel formato "orizzontale" che conosciamo), ma il merchandising fiorì intorno al 1988, qualche anno più tardi della nostra storia.

Fin qui tutto bene. Il resto, invece, è stato un po' complicato. Perché, per quanto affidabile sia Google e ti porti dappertutto ("anche dove non volevi", cantano Elio e le Storie Tese), nemmeno Google è in grado di dirti in un istante quanto costava un caffè nel 1985 (400 lire); oppure se nel 1985 si utilizzavano già le schede telefoniche (risposta: le prime schede telefoniche furono realizzate nel 1976, e cominciarono a diffondersi a metà degli anni ottanta). E non solo: dato che il disegnatore deve disegnare, bisogna vedere com'erano fatti all'epoca i telefoni pubblici (ricordandoci che la SIP era SIP, e non ancora Telecom).


Scoprire o ri-scoprire tutto ciò, visionando decine di siti (spesso per scoprire che l'autore dell'articolo ne sapeva meno di me), ha richiesto il suo tempo. Così come studiare sulla cartina e poi fotografare le strade attraversate da Massimo nella sua corsa disperata. I fiorentini avranno probabilmente riconosciuto il famoso caffè Paszkowski in piazza della Repubblica. Pochi, magari, avranno riconosciuto il tabernacolo con la Madonna con Bambino, che fa parte della ex chiesa di San Pancrazio in via della Spada. Quanto a Via Sant'Onofrio, naturalmente esiste davvero, anche se non c'è nessun negozio di elettrodomestici.


Se America, America mi ha portato via un bel po' di tempo per la documentazione, il numero 7, che leggerete il mese prossimo, è stato altrettanto impegnativo.

Confesso di non sapere molto delle tribù indiane, se non quello che ho visto nei film western. Ecco perché decidere a quale tribù doveva appartenere il vecchio indiano protagonista di Al centro del nulla è stato già problematico. Non ricordo più come e perché alla fine ho optato per un Cherokee. Il passo seguente è stato dargli un nome (ne ho cambiati almeno tre, cercandone uno che non suonasse buffo all'orecchio italiano), e poi "battezzare" tutta la sua famiglia.

Ma almeno un elenco di nomi si scorre in fretta. Scegliere la leggenda che il vecchio Adahy doveva raccontare è stato un lavoro più lungo, anche se sono particolarmente soddisfatto del risultato: la favola della nascita dell'autunno per me è bellissima (spero che sarete d'accordo con me quando la leggerete), e mi ha fornito anche lo spunto per il drammatico finale della storia.

Perfino scegliere una semplice battuta ha richiesto il suo tempo. Confesso che fino ad allora non mi ero mai posto il problema di cosa facesse ridere i nativi americani. Ma il problema, ovviamente, non era tanto trovare una battuta divertente per loro: era trovare una battuta che facesse perlomeno sorridere anche il lettore italiano (e che fosse appunto una battuta, non una barzelletta che avrebbe riempito diverse vignette).

Search dopo search, link dopo link, pagina dopo pagina, il tempo è scivolato via inesorabile, facendomi accumulare un ritardo mostruoso sul numero 8. Che aveva un plot molto semplice e, nelle mie intenzioni, doveva essere un lavoro veloce... fino a quando non mi è venuta l'idea di inserire nella trama il racconto di due fatti storici. Di cui, ovviamente, riparleremo a tempo debito. Già.

Tempo, tempo, tempo...

giovedì 19 novembre 2009

IL TERZO UOMO



Pochi lettori ci pensano, ma ogni mese c’è una terza firma su Caravan, oltre a quella di chi scrive e chi disegna. Il nostro terzo uomo è l’autore dei riassunti che trovate a pagina 2 e della rubrica Sulla strada. E’ Gianmaria Contro.

Gianmaria è una specie di motore di ricerca umano. Dategli una parola chiave e lui troverà film, libri, serie tivù di cui voi vi eravate dimenticati. Questa sua capacità si è rivelata particolarmente preziosa per la rubrica di Caravan: non essendo una classica serie avventurosa, Caravan racchiude spunti narrativi che vanno aldilà del “genere”. E Gianmaria riesce a trovare assonanze, rimandi e riferimenti tra film diversissimi, individuando percorsi tematici che a volte stupiscono anche il sottoscritto.

Avrei voluto presentarvi Gianmaria mettendo il link alla sua scheda nel sito della Bonelli, ma il “terzo uomo”, si sa, opera nell’ombra, e la sua scheda nel sito Bonelli non c’è.

Poco male, comunque. Eccola qui:

Gianmaria Contro (1968) esordisce in editoria tra i redattori de La Rivisteria – periodico di informazione e dibattito sul mercato del libro. Nel 1998 realizza per Feltrinelli il saggio Il mercato del terrore – mostri e maestri dell’horror. Dal 2003 al 2007 è membro permanente della redazione del mensile HorrorMania e autore per la rivista-gemella ThrillerMania, entrambe pubblicazioni delle Edizioni Master. Collaboratore occasionale di varie testate e case editrici (GQ, Gargoyle o Horror.it, per ricordarne qualcuna), dal 2002 lavora stabilmente presso la Sergio Bonelli Editore, per la quale realizza anche brevi saggi e rubriche per gli Almanacchi della Paura, della Fantascienza, , dell’Avventura, del Giallo e del Mistero, nonché interventi su Speciale Tex, Dylan Dog Superbook, Romanzi a Fumetti, Nathan Never Granderistampa… e Caravan, naturalmente.

lunedì 16 novembre 2009

DISTR(ib)UZIONE DI UNA SERIE

Ancora una volta mi arrivano segnalazioni di lettori che hanno difficoltà a trovare Caravan (ma la stessa cosa succede per Greystorm). E in questo caso particolare non a Molfetta, ma a Milano (zona Sempione, nientemeno).

Premesso che fino a un certo punto il problema è fisiologico (le mini-serie non hanno certo le tirature di Tex e Dylan Dog), purtroppo è vero che ci sono problemi con la distribuzione.

Mi dispiace. Riguardo all'organizzazione della distribuzione sono impotente quanto voi. L'unica cosa che posso suggerirvi è di cercare di acquistare l'albo sempre nella stessa edicola, e di fare pressione sull'edicolante perché questi a sua volta faccia pressione sul distributore.

In ogni modo gli arretrati sono sempre disponibili presso la casa editrice, e si possono ordinare on line (trovate il link nella colonna a destra).

venerdì 13 novembre 2009

DICIOTT'ANNI FA...

...la mia prima intervista su Fumo di China, in occasione dell'uscita di Nathan Never. Sul numero 175, ora in edicola, la mia seconda intervista (e la prima da "single", senza Serra e Vigna). Beh, non potete accusarmi di imperversare sulla carta come sul web.

Stavolta rispondo alle domande di Stefano Priarone. Si parla di Caravan e di altre cose (inevitabilmente, anche dei nerd del fumetto. Ormai sono un esperto dell'argomento :-)

Mi rendo conto del ritardo della segnalazione, ma per fortuna Michele Benevento, sul suo blog, è stato più tempista di me. Nell'articolo potete ammirare in anteprima anche alcune delle sue tavole per il numero 9 di Caravan.

giovedì 12 novembre 2009

GOD BLESS AMERICA


POST EDITATO

ATTENZIONE: QUESTO POST CONTIENE SPOILER SU CARAVAN n. 6, AMERICA, AMERICA

America, America
doveva intitolarsi God Bless America (“Dio benedica l’America”); God Bless America è l’incipit dell'omonima canzone di Irving Berlin, così famosa da essere diventata una specie di inno nazionale "parallelo" a quello ufficiale, The Star Spangled Banner. Il titolo di questo albo (scartato all’ultimo momento per motivi che non dovete chiedere a me) aveva una doppia valenza nel rapporto con la storia. Perché sicuramente per Massimo Donati una frase del genere era da intendersi alla lettera, e per suo fratello Carlo suonava ironica.

America, America è il titolo originale di un bellissimo film di Elia Kazan, diventato in italiano Il ribelle dell’Anatolia: racconta la storia del giovane Stavros, che lascia la Turchia in subbuglio per le rivendicazioni delle minoranze greche e armene e si imbarca per raggiungere gli Stati Uniti. Kazan vi riversò molte esperienze direttamente o indirettamente autobiografiche.

Anche il sesto albo di Caravan contiene alcuni spunti autobiografici (certamente meno drammatici di quelli di Kazan). In teoria era facile da scrivere, nella pratica si è rivelato l’albo più complicato, dal momento che contiene scene ambientate in quattro decenni diversi.

Il grosso della storia si svolge a cavallo tra due anni, il 1984 e il 1985. Venticinque anni fa. Vi faccio qualche domanda a bruciapelo, e ditemi in tutta onestà se avreste saputo rispondere senza avere letto l’albo.

1) La Telecom era già Telecom o era ancora SIP?

2) Le cabine telefoniche funzionavano ancora con gettoni e monete, oppure c’erano già le schede magnetiche?

3) C’erano già i treni Intercity?

4) Quanto costava un caffè?

5) Quali erano i dischi in cima alla top ten?

È sorprendente constatare quanto poco ricordiamo del nostro passato prossimo. O forse no, pensando a com’è cambiata rapidamente la nostra vita, e in pochi anni.

Parlando di altri decenni: la scena che va da pagina 35 a pagina 38 è reale, anche se ho cambiato il luogo e i protagonisti. Nella realtà i due bambini erano due bambine (mia madre e mia zia), e la stazione ferroviaria era quella di Cagliari. Ma verosimilmente scene del genere, nel dopoguerra, capitavano un po’ dovunque. Come a volte succede nelle mie storie, Antonio Serra fa un ruolo cameo nella parte del soldato Greenhouse (“serra”), quello che legge i fumetti.

A proposito di fumetti, nell’albo compaiono due grandi protagonisti degli anni ottanta: Lupo Alberto e Zanardi. Ma scommetto che questi li avevate notati. Se non avete almeno la mia età, invece, vi sarà sfuggita la presenza di un grande protagonista degli anni sessanta: Ercolino Sempre in Piedi, il pupazzo gonfiabile che la Galbani dava in omaggio con i punti dei formaggini. Tra l’altro, lo avevo già citato su Dylan Dog, sia pure sotto mentite spoglie, quelle del cinesino Chu Hueng Gum (la storia era Il feroce Takurr, dedicata al fenomeno del collezionismo).

Le citazioni musicali sono evidenti, quindi non c’è bisogno di parlarne. Forse vale la pena di ricordare che i Clash non sono finiti casualmente sulla maglietta del terrorista Bertrand. Il primo giugno 1980, suonando in Piazza Maggiore a Bologna, il leader del gruppo Joe Strummer indossò una T–shirt con la stella a cinque punte e la scritta Brigade (sic) Rosse. L’episodio ha assunto contorni quasi leggendari, ma Strummer quella maglietta l’aveva eccome. Si vede anche qui (in un concerto londinese del 1978) al minuto 2:34. In seguito Strummer, scomparso nel 2002, definì quell’episodio come uno dei suoi numerosi “atti di guerra adolescenziali”.

Infine vorrei parlare di un’altra “citazione” di America, America, quella del terrorismo.

Anche qui, forse, la memoria ci gioca qualche scherzetto. Soprattutto se in quegli anni eravamo ragazzini, ricordiamo che “gli anni di piombo” erano gli anni settanta. Ma in realtà per quasi tutto il decennio degli anni ottanta il terrorismo continuò a uccidere. Basta solo ricordare come comincia il decennio dei “paninari” e dell’ “edonismo reaganiano”: nel 1980 – oltre a un gran numero di poliziotti e carabinieri – sono uccisi il magistrato Vittorio Bachelet, il generale Enrico Galvaligi, il giornalista Walter Tobagi. È anche l’anno della strage di Bologna: 85 morti. Negli anni seguenti è ucciso il dirigente della Montedison Giuseppe Taliercio, il vicequestore di Napoli Antonio Ammaturo, il docente universitario Ezio Tarantelli. Nel 1986 il terrorismo colpisce anche a Firenze, quando le Brigate Rosse uccidono Lando Conti, che era stato sindaco della città fino all’anno precedente.

E proprio ricordandomi dell’omicidio di Conti mi è venuta l’idea di invischiare Massimo e suo fratello in una storia di terrorismo.

A differenza del Cantoni di Caravan, Lando Conti, esponente del Partito Repubblicano e membro della massoneria, non ebbe direttamente a che fare con le basi militari americane in Toscana. È però vero che entrò nel mirino delle Brigate Rosse per le sue posizioni “filoatlantiche e sioniste” (secondo i terroristi, ovviamente). Inoltre Conti possedeva una piccola quota della SMA, un’azienda che produceva materiali anche per usi militari. Tanto bastava per bollarlo come nemico del popolo.

Un pomeriggio si stava recando in auto, da solo, a una seduta del consiglio comunale (non più sindaco, era comunque consigliere), quando una Uno rossa lo affiancò. Dal finestrino, un killer gli sparò tredici colpi con la stessa micidiale Skorpion che aveva ucciso a Roma Ezio Tarantelli e il senatore DC Roberto Ruffilli. Era il 10 febbraio 1986. L’inchiesta su quel delitto è stata archiviata nel febbraio di quest’anno, lasciando ancora aperti parecchi interrogativi sulla composizione del commando che uccise Conti.

Per chiudere, qua sotto c'è quella che per me è la versione più struggente di God Bless America mai sentita. E per lasciarci su una nota più amena, permettetemi di mandare un saluto affettuoso a Cristiana, Viviana e Francesca. Ancora grazie dell’ospitalità e dei caffè. Nonostante tutto, erano bei tempi.

A META' DEL VIAGGIO

Due parole con un'intervista "fatta in casa", sul sito della Sergio Bonelli Editore.

sabato 7 novembre 2009

RINNEGATO, NON TI CONOSCIAMO PIU'!



Dopo l'assegnazione dei premi Gran Guinigi a Lucca Comics & Games, i giornali sardi l’Unione Sarda e La Nuova Sardegna rilevano con legittimo orgoglio che un sardo si fa onore sulla ribalta nazionale.


giovedì 5 novembre 2009

OPERE DI UN CERTO PESO

Rilancio un interrogativo interessante dal blog di Claudio Nader.

Aggiungo qualche considerazione: “nella lunga prefazione di Zanardi (edito da Baldini & Castoldi, ndr) due pagine piene - ben 44 righe – vanno via solo per spiegare con quali criteri sono state editate le storie presenti nel volume. All'interno, 24 pagine presentano schizzi inediti, brani di interviste, commenti, note. E poi ci sono le storie, ovviamente. In bianco e nero e a colori. Formato del volume: 23 x 33 cm. Per darvi un'idea, circa un centimetro più largo e tre centimetri più alto dei volumi di Asterix, che proprio piccoli non sono. E la carta è ottima, sia chiaro. Qui si fa dell’arte, mica cavoli. Ma attenzione: le pagine sono 176. Il che significa che il volume pesa un chilo tondo tondo. (Un solido cartonato di Asterix non arriva a mezzo chilo, per intenderci). Se, come me, siete di quelli che leggono la notte prima di addormentarsi non avete speranze di maneggiare questo malloppo standovene comodamente sdraiati. (Non parliamo poi dei poveri mentecatti che leggono in metropolitana... non sanno che l'arte esige sacrifici?)”

Scrivevo queste righe sei anni fa, per un editoriale nel mio sito. Qualche giorno fa, a Lucca, ho comprato l’edizione italiana di due storie famose che avevo solo in edizione originale, The Killing Joke di Moore & Bolland, e Batman: Year One di Miller & Mazzucchelli. Entrambe le storie erano state pubblicate in formato comic book. Le attuali edizioni hanno una misura più grande dei classici cartonati francesi. Perché?

Probabilmente, per diverse ragioni. La prima la trovo fastidiosa, la seconda un po’ inquietante. La prima ragione è l’aggressiva politica editoriale della Planeta De Agostini, che si propone di seppellire materialmente la concorrenza della Panini–Marvel occupando tutto lo spazio disponibile sugli scaffali. Insomma, una gara a chi ce l’ha più grosso (il volume). E dato che una major dell’editoria può sobbarcarsi grosse spese di stampa mantenendo i volumi a prezzi popolari, in questa gara le piccole case editrici fatalmente soccombono e spariscono dagli scaffali.

La seconda ragione, quella dietro la elefantiaca edizione di Zanardi (che però è niente rispetto a quella, monumentale, della Ballata del mare salato o all’edizione de–luxe di Watchmen) è che si tende a concepire il libro come oggetto di lusso. Ma perché un libro dev’essere un oggetto di lusso, tenuto conto che questi volumi non sono proprio best–seller, e i prezzi sono alti?

Mi si obietterà che non c’è niente di male a offrire di più a chi è disposto a spendere di più. E dopotutto le storie di Zanardi e quelle di Corto Maltese sono perennemente in ristampa anche a prezzi abbordabili. E in effetti no, non c’è niente di male a offrire a un prezzo maggiore una carta migliore e una grafica più elegante.

Tuttavia credo che ci sia un limite anche all’edizione di lusso. Passato quel limite – quello della semplice “usabilità” del volume, che in quelle dimensioni richiede un leggìo – si esce dal campo dell’editoria e si entra in quello del feticismo: il libro come oggetto da adorare e/o esibire.

In un momento in cui c’è più che mai necessità di diffondere cultura, sembra che si sia tornati indietro agli anni sessanta, quando i nouveaux riches del boom economico sceglievano i libri dal colore della copertina, per intonarli alle pareti del salotto.

Mi sembra una regressione inquietante.

lunedì 2 novembre 2009

I FUMI DELLE LUCCHE

Pare che sia stata una bella Lucca. Roberto Recchioni, per esempio, ne è rimasto entusiasta.

Per il mondo del fumetto Lucca è una specie di sbornia collettiva. Una sorta di carnevale in cui dentro i tendoni (e nei bar adiacenti) si celebrano i riti del Fumetto. Gli incontri col pubblico, la presentazione dei portfolio, le interviste, gli annunci di nuovi progetti.

Ma, come per l'alcol, i fumi delle Lucche passano e i problemi del fumetto restano. Se a Lucca c’è stato qualche evento significativo che ha smosso le acque stagnanti del fumetto italiano, io non me ne sono accorto.

Un tempo la fiera di Lucca si chiamava Il Salone Internazionale dei Comics. Adesso è Lucca Comics and Games. Un tempo la premiazione degli autori avveniva al sabato sera, ed era considerata il clou della manifestazione. Ora viene sbrigata il giovedì, il primo giorno della manifestazione, per lasciare spazio alle cose che contano. Quali siano, non lo so. Forse il torneo di cosplay.

In una strada del centro ho incrociato un gruppetto di cosplayers, e ho sentito uno di loro bisbigliare alle mie spalle: – Guarda quello, è vestito da autore di fumetti. –

E un altro ha detto: - E' vero. Ma sai che ne ho già visti tre o quattro?

domenica 1 novembre 2009

LUCCA COMICS & GAMES 2009


POST EDITATO

"Per avere introdotto, con l'ideazione della miniserie Caravan, numerose e rilevanti novità sia di carattere formale che di carattere narrativo all'interno della produzione della Sergio Bonelli Editore, valorizzando al massimo l'umanità dei personaggi, scrivendo dialoghi realistici che rifuggono da clichés e stereotipi e, infine, rinunciando a concentrare l'attenzione su un solo protagonista per dare vita a una vicenda realmente e credibilmente corale, il Premio Gran Guinigi per il miglior sceneggiatore viene assegnato a Michele Medda."

Curiosamente, le motivazioni dei premi di Lucca Comics and Games 2009 agli autori (compresi Pasquale Frisenda come miglior disegnatore e Joann Sfar come miglior autore unico) non sono state pubblicate sul sito della manifestazione (almeno fino a questo momento). Ringrazio Diego Cajelli per avermi passato quella relativa al mio premio, e quella del premio a Pasquale Frisenda quale miglior disegnatore; la motivazione è "per avere offerto, disegnando le 224 tavole di Patagonia una prova di rara maturità grafica, dimostrandosi abile tanto nel realizzare sequenze d’azione ed epiche scene di massa quanto nell’esaltare l’espressività dei personaggi, e per avere in questo modo consolidato il suo status di maestro del bianco e nero ormai in possesso di una riconoscibile cifra stilistica pur seguitando a muoversi nell’aureo solco che va da Milton Caniff e Alex Toth fino a Ivo Milazzo".

La foto qua sopra è di Fabrizio Salvetti, e fa parte dell'album dell'organizzazione, visibile su flickr a questa pagina.

Non chiedetemi perché, pur essendo il premio assegnato per il lavoro su Caravan, durante la consegna del premio è stata proiettata l'immagine di una copertina di Nathan Never.

Ho ringraziato dal palco, e lo rifaccio qui, tre persone senza le quali Caravan non sarebbe mai uscito: Sergio Bonelli, il mio supervisore Mauro Marcheselli, e la mia prima stella a destra: Lucia.

mercoledì 21 ottobre 2009

ALLONS, X-ENFANTS!


POST EDITATO

Una notizia da Francesco Artibani:

"Ciao, Michele, un breve aggiornamento solo per informarti che il primo volume di X-Campus ha vinto la 18a edizione del Festival di Rennes "Bulles en fureur".

Sabato scorso, 17/10, Roberto Di Salvo ha ritirato il premio in Bretagna; il volume è stato premiato per la categoria preadolescenti (mentre il premio per la seconda categoria, quella degli adolescenti, è andato a "Nanami" di Corbeyran, Nauriel e Sarn)."

La notizia si può leggere (se capite il francese) qui e in quest'altra pagina.

Si tratta di un premio dato non all'interno delle solite manifestazioni fumettistiche, ma nell'ambito di un progetto di educazione alla lettura per ragazzi provenienti da famiglie disagiate. E a votare sono giurie composte di giovanissimi lettori.

Non sono coinvolto direttamente (in Francia è uscito solo il primo volume di X-Campus, scritto da Francesco), ma la notizia mi fa immensamente piacere.

Ne approfitto per ricordarvi che la serie, raccolta in un solo volume, uscirà in Italia nel mese di dicembre, nella collana di volumi allegati alla Gazzetta dello Sport.

Questa la pagina di X-Campus sul sito Panini.

CARAVAN A LUCCA (conferma)

POST EDITATO

Il sito ufficiale di Lucca Comics ha pubblicato il programma delle manifestazioni e degli incontri.

Confermato l'appuntamento con il sottoscritto e con Emiliano Mammucari, giovedì 29 ottobre, per parlare di Caravan, varie ed eventuali. Il luogo è la sala incontri della Camera di Commercio, Corte Campana, e l'orario è confermato per le 17.

Per chi fosse interessato: sempre nella stessa sala, sabato alle 16, incontro con gli sceneggiatori di Dylan Dog Paola Barbato, Giovanni Di Gregorio, Tito Faraci, Roberto Recchioni e Pasquale Ruju.

Come già anticipato, cercherò di farci un salto anch'io.

A presto!



lunedì 19 ottobre 2009

STOP! BUONA LA PRIMA!

Il cinematografico “Buona la prima” è spesso l’equivalente del modo di scrivere un fumetto seriale. E lo dico con rammarico. A differenza di chi scrive romanzi o sceneggiature per il cinema, noi non possiamo tornare indietro. Non esiste una seconda stesura, figurarsi una terza.

Possiamo intervenire sul testo, con possibilità molto limitate, in fase di revisione. Allora possiamo cambiare fino a stravolgerlo un dialogo che si svolge dentro una stanza. Ma non possiamo fare in modo che quel dialogo si svolga sul ponte di una nave.

Possiamo ritornare su quello che abbiamo scritto solo se siamo particolarmente veloci, e soprattutto se lavoriamo su una storia alla volta.

Se scrivo una storia alla volta, le cose funzionano così: do quindici tavole al disegnatore, e il disegnatore è “coperto” per un mese. Durante quel mese io porto avanti la storia. Se arrivo, per dire, a tavola 70 e ho bisogno di tornare indietro e cambiare qualcosa che ho già scritto, posso farlo... ovviamente a partire da tavola 16. Le prime 15 tavole sono già cotte e mangiate, per così dire.

Se non ho perfettamente chiara in testa la storia che sto scrivendo, tendo a consegnare tranches brevi (dieci-dodici tavole), in modo da tenermi ampi margini di intervento man mano che porto avanti la sceneggiatura.

La condizione ideale è ovviamente finire la sceneggiatura e avere modo di limarla prima di consegnarla completa al disegnatore (che in questo modo, a sua volta, lavora meglio). Ma questo capita di rado.

Lavorando a più sceneggiature contemporaneamente, tornare indietro e riscrivere è molto più difficile. Nei primi, frenetici anni di Nathan Never scrivevo venti tavole per Casini, e mentre lui lavorava a quelle ne scrivevo dieci per Toffanetti. Mentre Toffanetti disegnava quelle dieci, ne scrivevo altre quindici per Mari. Quando consegnavo a Mari, Casini aveva ormai finito la sua tranche e dovevo mandargliene un’altra, dopodiché il ciclo ricominciava. E poi qualcuno mi chiede perché non ho continuato a scrivere anche Tex.

Se ripenso a come lavoravo allora, e alla sicurezza che era necessaria per scrivere qualcosa di coerente già in prima battuta, mi dico che non era professionalità, ma giovanile incoscienza. Ricordo perfettamente alcune sceneggiature cominciate avendo solo un’idea vaghissima, o addirittura nessuna idea di dove andare a parare: Vampyrus, Tragica ossessione, Un mondo di robot.

Ricordo un’altra sceneggiatura interrotta dopo circa una ventina di tavole, disegnate da Stefano Casini, e ripresa dopo quasi dieci anni, quando avevo ormai completamente dimenticato cosa volevo scrivere. Quella sceneggiatura è diventata la storia Mandato per un omicidio/Intrigo su Melpomene, e Casini è stato bravissimo a dare continuità grafica al lavoro: sfido i lettori a individuare la tavola in cui si interrompe la tranche del 1994 e comincia quella del 2004. Quanto alla storia, ho dovuto reinventarla da capo (partendo comunque dalla situazione presentata nelle prime tavole, ovviamente immodificabili).

Notate che io non ero per niente prolifico (e non lo sono mai diventato). Credo di essere arrivato al massimo a cinque storie in contemporanea. Antonio Serra riusciva a scriverne il doppio. Era (ed è) così per tutti, intendiamoci. Quando mi chiamarono a scrivere Tex, per evitarmi di proporre idee già sfruttate Claudio Nizzi mi diede la lista delle sceneggiature a cui stava lavorando: erano quattordici.

Dato che non mi andava di trasformarmi in una macchina sforna-sceneggiature in cui è sempre “buona la prima”, ormai da anni cerco di lavorare a una o due storie alla volta. Al massimo – se proprio c’è qualche emergenza - arrivo a tre. È il mio modo per tentare di preservare la bontà del mio lavoro. E la salute, ovviamente, ché quella viene prima di tutto.

sabato 17 ottobre 2009

LE PARTI E IL TUTTO

Nell’introduzione all’edizione integrale dell’Ombra dello Scorpione (The Stand) Stephen King spiega il perché della nuova versione del libro. Rispetto al dattiloscritto originale, la prima edizione aveva circa quattrocento pagine in meno. La casa editrice aveva deciso il taglio perché pubblicando integralmente il libro il prezzo di copertina sarebbe stato superiore a 12,95 dollari. Troppo per le tasche dei lettori, secondo l'ufficio marketing.

Fu chiesto a King di accorciare il romanzo, e lui eseguì. Ovviamente a malincuore, cercando di tagliare alcune parti “superflue”.

Per spiegare la propria insistenza nel pubblicare l’edizione integrale del romanzo, King fa un esempio. Racconta in poche righe la storia di Hansel e Gretel, la fiaba tedesca resa celebre dai fratelli Grimm. La riporto qui, precisando doverosamente che la traduzione è di Bruno Amato e Adriana Dell’Orto.

Hansel e Gretel erano due bambini con un buon padre e una buona madre. La buona madre morì e il padre si risposò con una donna cattivissima. Questa vipera avrebbe voluto che i bambini si togliessero dai piedi per avere più denaro da spendere per sé. Impose al marito, fiacco e rimbambito, di portare Hansel e Gretel nella foresta e di ucciderli. All’ultimo momento il padre dei ragazzi si perse d’animo e permise loro di vivere in modo da morire di fame nella foresta, invece di trovare una morte rapida e pietosa sotto la lama del suo coltello. Girovagando, i due si imbatterono in una casa fatta di pan di zucchero. Ci viveva una strega cannibale che li ingabbiò, informandoli che quando sarebbero diventati belli grassi se li sarebbe mangiati. Ma i ragazzi ebbero la meglio su di lei e Hansel la ficcò nel forno. Trovarono il tesoro della strega e anche una mappa, perché alla fine ritornarono a casa. Quando vi giunsero, papà mise alla porta la vipera a calci nel sedere e vissero per sempre felici e contenti.

King dice che questa versione short della fiaba è “una schifezza (…) come una Cadillac con le cromature squamate e la vernice scorticata fino al metallo”.

Cosa manca? Per esempio, un dettaglio macabro: la donna chiede al marito di portarle i cuori dei due bambini come prova dell’esecuzione, e il marito le porta i cuori di due conigli. E manca anche il dettaglio delle briciole di pane. Hansel, avveduto, cammin facendo sbriciola una pagnotta per segnare il cammino, ma gli uccelli beccano le briciole, impedendo così a lui e Gretel di ritrovare la strada di casa.

Entrambi questi episodi sono superflui – la short version è perfettamente comprensibile anche senza di essi – ma, dice King, contribuiscono comunque alla trama. “Sono grandi e magici elementi di narrazione, trasformano quella che sarebbe potuta essere una storia qualunque in un racconto che affascina e terrorizza i lettori da più di un secolo”.

King dice che in un buon racconto l’intero è più della somma delle singole parti. Ciò significa che una piccola parte può contribuire al tutto in maniera non matematica, e ciononostante fondamentale. Ed ecco perché lo scrittore ha voluto che L'ombra dello scorpione uscisse in edizione integrale.

C’è un risvolto interessante, comunque, nell’operazione compiuta da King (che presenta analogie con la “ricostruzione” di Blade Runner da parte di Ridley Scott): al momento di eseguire i tagli per la prima edizione King taglia tutto ciò che ritiene “superfluo” o comunque non troppo importante per la trama, come la parte relativa all’assassino che si fa chiamare The Kid. Ma, al momento di reintegrare le parti tagliate nella seconda edizione, King non reintegra tutto. E anzi, dice con grande sincerità che alcune di quelle parti meritavano di essere tagliate.

La narrativa non è una scienza esatta.

Purtroppo o per fortuna.

mercoledì 14 ottobre 2009

STRUTTURE

Fateci caso: in un film mainstream tutti i personaggi principali vengono presentati e caratterizzati nei primi 10–12 minuti. E la struttura standard di tre atti, codificata dal cinema americano con lo schema di Syd Field, pone il turning point – l’evento che imprime una direzione precisa alla storia – tra il ventiquattresimo e il ventisettesimo minuto. Perciò, prima che sia passata mezz’ora sappiamo invariabilmente di cosa parlerà il film.

Se non mi credete, mettete su un dvd e controllate il timer. Io l’ho appena fatto con Wilderness, un buon horror di genere “survival” diretto da Michael J. Bassett. I primi dieci minuti sono dedicati alla presentazione dei giovani detenuti protagonisti della storia. Al minuto 25 i nostri si accorgono della presenza di morsi su un cadavere, segno che c’è “qualcosa di strano” sull’isola. Quello è il turning point, perché da questo punto capiamo che quel “qualcosa” si accinge a massacrare tutti.

Effettuare questa operazione di timing quando scriviamo un romanzo non è possibile. Non solo per ovvi motivi tecnici (differenze di stampa e di formato tra un libro e l’altro), ma perché l’elemento “tempo” non è oggettivo, è interiorizzato dal lettore e varia da persona a persona. Banalmente parlando, possiamo dire che una storia non deve iniziare né troppo presto né troppo tardi. Ma in un romanzo non si può predeterminare a freddo (come invece accade in uno script per il cinema) il numero della pagina in cui va inserito il turning point.

Sarebbe anzi interessante vedere un film tratto da un libro, individuare l’evento che costituisce il turning point e controllare poi sul libro a quale pagina si trova. In base allo schema di Syd Field, il turning point si trova a circa un quarto del film (prendendo come modello un film di due ore) o a un terzo (se prendiamo il tipico horror da novanta minuti).

Ma in quale punto del libro si trova il turning point? Può darsi che, contando le pagine, alla fine la proporzione risulti la stessa osservata nel film. Quello che è certo è che nessuno ha mai provato a codificare una struttura generale per il romanzo come invece si è fatto per i film. O, se una simile struttura esiste, certamente non viene applicata con lo stesso rigore di quella di Syd Field.

Perché è così difficile codificare il romanzo? Perché il romanzo ha una struttura molto più elastica e meno "inquadrabile" di quella di un film o di un telefilm. E se noi leggessimo un romanzo “al buio”, cioè senza avere alcuna informazione su di esso, probabilmente faticheremmo a capire a quale genere appartiene (ammesso che appartenga a un genere) prima di avere letto un congruo numero di pagine.

E anche a lettura finita il dubbio potrebbe restare, specie in quei romanzi che utilizzano elementi chiave del “genere”, ma non si muovono rigorosamente dentro la struttura del “genere”. Pulp di Charles Bukowski è un poliziesco hard boiled? E Sotto la pelle di Michel Faber è un romanzo di fantascienza?

Se poi andiamo ad analizzare romanzi a fumetti – quelli veri, come Una ballata del mare salato, Maus, Persepolis – ci accorgiamo che non possiamo rintracciare in opere simili una struttura analoga a quella del racconto cinematografico, per quanto sotto l’aspetto visivo possano trasparire soluzioni “cinematografiche” (nella composizione delle vignette o nel montaggio). Proprio come un romanzo letterario, il “romanzo grafico” ammette digressioni, monologhi, cambiamenti del punto di vista.

Chi volesse tentare un approccio critico dovrebbe tenerne conto. E dovrebbe tenerne conto anche chi si avvicina a un “romanzo grafico” come lettore.

Non saprei parlare del primo tipo di approccio (non è il mio campo) e non intendo parlare del secondo. In un prossimo post vi parlerò invece dell’approccio dell’autore.

lunedì 12 ottobre 2009

MEDAGLIA D'ORO PER DAVIDE DONATI

POST EDITATO

Davide Donati si è classificato primo, ex aequo con il celebre Hellboy di Mike Mignola, nella categoria "miglior personaggio" nel referendum organizzato dalla rivista XL e dalla manifestazione Romics (ne avevamo parlato qualche giorno fa).

Devo dire che non me l'aspettavo. E' un risultato straordinario per una mini-serie con appena cinque numeri in edicola.

Complimenti a Davide... ;-)

e grazie a tutti!

domenica 11 ottobre 2009

I SEE BAD TIMES TODAY


Chi sostiene di avere a cuore le sorti del fumetto dice che non è un male se ci saranno meno fumetti. L’importante è che siano buoni, no?

Il tipico nerd fumettomane è convinto che verrà un’Apocalisse che risparmierà i giusti. Una divinità collerica ma benigna punirà i malvagi facendo chiudere le loro serie (di infimo livello qualitativo) e lascerà salvi gli Artisti con la A maiuscola.

Mi spiace deludere il nostro nerd: quando la falce della Grande Crisi si abbatterà su di noi non farà differenze tra uomini e donne, militari e civili, artigiani e artisti, quelli che hanno letto Watchmen e quelli che sono fermi a Tiramolla. Ci spazzerà via tutti, decretando la fine del mestiere del fumetto.

Questa prospettiva non turba affatto chi vede con simpatia la crisi dei mezzi di produzione capitalistici, e di conseguenza l’ipotesi di fumettisti costretti a timbrare il cartellino di giorno e a lavorare la notte. Dopotutto, cosa vogliono questi scansafatiche? Quello dei fumetti “non è lavoro vero”. Come si dice, “non è mica come in miniera”.

Secondo queste anime belle, il lavoro artistico, una volta libero dalle catene della produzione capitalistica, si monderà di ogni impurità e di ogni compromesso. E uscirà immacolato dalle mani dell’artista per proporsi al lettore in una mirabile comunione di anime elette.

Questa è una sciocchezza che bizzarramente riacchiappa “a sinistra” la convinzione religiosa (o superstiziosa, fate voi) dell’artista che, ispirato da Dio, non ha bisogno d’altro che ascoltare la Sua voce. Ed è una sciocchezza pericolosa. Pericolosa perché sposta il discorso relativo all’arte sul piano metafisico, verso un’Arte come Verità Rivelata che non ammette critiche, perché non è mica prodotta in serie. È Arte perché sì, e tanto basta. Tutti saranno artisti, basterà proclamare di esserlo. Ma se tutti saranno artisti, la conseguenza – ipocritamente ignorata – è che nessuno sarà artista.

La verità è che non c’è arte senza artigianato. Non c’è arte senza senza l’apprendistato, senza gli errori. Non c’è arte senza il confronto con i mezzi di produzione, con la committenza, perfino con la censura. Non c’è arte senza Classici da emulare o da abbattere. E tutto questo non si può avere – o al massimo si può avere assai raramente – con un’arte a mezzo servizio, praticata nei ritagli di tempo. L’arte è pratica quotidiana. L’arte si impara, giorno dopo giorno.

Ne avevamo già parlato qualche anno fa. Per almeno due decenni (gli anni sessanta e settanta) in Italia sono maturati talenti straordinari. È stato possibile perché l’editoria era così fiorente che consentiva infinite occasioni di lavoro. Chi voleva “fare i fumetti” poteva esordire facilmente. E i talenti avevano la possibilità di crescere e affinarsi attraverso esperienze diverse, trovando infine ciascuno un proprio percorso.

Oggi questa possibilità è ridotta al minimo. Diciamo pure al grado zero.

E quando il fumetto – il fumetto popolare, quello che va in edicola ogni mese – scomparirà dagli scaffali, sarà la fine del mestiere del fumetto in Italia. Il medium fumetto non scomparirà, naturalmente. Rimarrà come hobby da dopolavoro, o come reperto archeologico per paleontologi della cultura e per nostalgici, oppure come fenomeno modaiolo da riproporre ciclicamente come vintage.

Forse – io ne dubito – sarà comunque un fumetto di Alto Livello Qualitativo. Ma non sarà più quella forma d’arte pulsante e vitale che ha inciso nell’immaginario di un secolo.

lunedì 5 ottobre 2009

COVER ME part 2

Al momento di preparare Caravan per l’uscita ci siamo trovati di fronte al problema delle copertine. Noialtri – autori, editore, redattori – eravamo consci della peculiarità di Caravan rispetto alle altre serie bonelliane. Come trasmettere al lettore il senso di questa peculiarità?

Innanzitutto abbiamo scelto di non “disegnare” il logo della testata come al solito, ma di utilizzare un font moderno. Per i curiosi: no, non è quello utilizzato per Jericho (io ve l’avevo detto che Jericho non c’entra niente). Inoltre abbiamo deciso di usare una mappa come elemento grafico, per suggerire l’idea del viaggio. Idea sottolineata perfino dal “bollino” del prezzo, sagomato come un cartello stradale.

Per quanto riguarda le illustrazioni, è apparso subito chiaro che l’approccio tradizionale doveva essere messo in discussione. Intendiamoci, potevamo “barare” mettendo in copertina delle scene d’azione che pure sono presenti nella serie. Ragionando in maniera tradizionale, la cover del numero 1 avrebbe visto Adrian Richards puntare la pistola contro Davide Donati, e una finestra della stanza aperta su un cielo minaccioso.

La cover del numero 2 avrebbe mostrato un motociclista inseguito da elicotteri militari che gli sparavano addosso. Avremmo mostrato la moto che fa zig zag, inclinata su un lato in una sfida alla legge di gravità, e i proiettili che scheggiano l'asfalto a pochi centimetri dalle ruote.

Nella cover del 3 avremmo mostrato gli abitanti di Nest Point che agitavano i pugni davanti ai fucili spianati dei soldati. Oppure - soluzione "texiana" - Lenny che scazzotta i due bulli per difendere Cynthia Newman.

Nella cover del 4 avremmo messo Harold Shawnessy che picchiava sua moglie (ma non Carrie; non metteremmo mai in copertina una scena di violenza su bambini).

In un certo senso, copertine così concepite sarebbero state “giuste”. Avrebbero mostrato scene di tensione e/o di violenza realmente presenti nelle storie. Tradendo però lo spirito della serie: in Caravan non sono le scene di violenza fisica a scandire il racconto. I conflitti che i personaggi affrontano sono per lo più conflitti interiori.

Ci voleva un approccio diverso, quindi. In primo luogo mi assumo la responsabilità di una scelta radicale: non ho voluto armi in copertina. Mai. Nemmeno per quelle storie in cui le armi compaiono e fanno fuoco. Questo per me era un segnale chiaro al lettore: attenzione, qui dentro c’è qualcosa di diverso dal solito.

E anche per questo abbiamo cercato un rapporto di “complementarità” tra le immagini e i titoli delle storie.

Un titolo non è qualcosa di appiccicato su una sceneggiatura giusto per distinguerla dalle altre centinaia che l’hanno preceduta. Purtroppo, spesso lo è. Per necessità, per velocità, e – perché negarlo? – per comodità. Per Caravan abbiamo cercato di sfuggire a questa trappola con dei titoli ragionati, che evidenziassero o il personaggio centrale della storia o un aspetto significativo del racconto.

Il primo titolo ipotizzato per il numero 1 è stato Un giorno a Nest Point. Questo titolo sottolineava l’ordinarietà della situazione spezzata dall’apparizione delle “nuvole strane”. Ma Il cielo su Nest Point mi sembrava un’idea migliore. L’illustrazione avrebbe chiarito subito cosa aveva di particolare questo cielo. (il problema è stato poi decidere chi mettere sotto quel cielo. Ne abbiamo parlato in questo post).

La cover del 2 è stata facile. La figura del motociclista ribelle ci sembrava abbastanza forte di per sé da non dover ricorrere a scene degne di un film di Italia 1 per solleticare i lettori. Emiliano ha disegnato Stagger in direzione opposta alla carovana. Si volta e si guarda indietro con un sorrisetto. “Il ribelle” non si unisce al branco. I wasn’t born to follow, diceva la canzone di Easy Rider. È perfetto. Non c’è bisogno d’altro. Non abbiamo praticamente considerato alternative a questa cover, se non l’idea di usare un’inquadratura leggermente più ravvicinata.

Il numero 3 era difficile. Il titolo cercava di centrare l’aspetto principale della storia. Che non è tanto la discutibile natura della verità ("duttile e plasmabile", dice la dottoressa Peters), quanto la credibilità di chi la enuncia. Specie se è qualcuno che non dovrebbe mentire mai. Come un leader, per esempio. A pensarci bene, un leader è la sua parola. Se la sua parola non è credibile, il leader non è credibile. (Almeno negli Stati Uniti. Come ben sappiamo, da noi è tutta un'altra cosa).

Non si può visualizzare “la parola di un leader”, ma si può visualizzare un leader. Perfino vestendolo normalmente, in giacca e cravatta, si può far capire che è un leader. Emiliano ha scelto una copertina compositiva: azzera lo sfondo (in una scena così “carica” non farebbe che appesantire l'immagine) e mette ai lati le due fazioni, civili e militari; mentre il leader – il sindaco Banks, come capiremo leggendo – viene verso di noi, sollevando la mano come per invitare la gente a seguirlo.

Una possibile alternativa sarebbe stata concentrarci sul momento più drammatico dell'albo, quello di maggiore impatto dal punto di visivo. E non parlo della riapparizione delle nuvole misteriose, ma di quella della ragazza scomparsa, Cynthia Newman. Non abbiamo nemmeno fatto un bozzetto, però: l'idea di mettere in copertina l'immagine di una ragazza coperta di lividi e coi vestiti strappati mi sembrava quasi pornografica.

Un altro bozzetto - questo effettivamente realizzato da Emiliano - vedeva Banks e il colonnello Warren l’uno di fronte all’altro in atteggiamento di sfida, con una inquadratura laterale ripresa leggermente dal basso. Abbiamo scartato questa prova perché, come giustamente ci ha fatto notare Mauro Marcheselli, l’angolazione dal basso era già stata usata il mese precedente. E inoltre, ragionandoci sopra, la sfida tra Banks e Warren non è personale. Banks agisce a nome della cittadinanza. Perciò ci sembrava più giusto mostrare anche i cittadini di Nest Point.

Il titolo del numero 4 è La storia di Carrie, ed è ovvio che la copertina doveva presentare Carrie al lettore. Una prima idea è stata quella di realizzare la copertina dell'albo come se fosse la copertina di un disco di Carrie. Doveva esserci solo Carrie con la sua chitarra. Qualcosa di simile a una cover famosa, quella di Nashville Skyline di Bob Dylan.

Questa soluzione aveva due difetti: era troppo “solare” (e la storia di Carrie non lo è) e sostanzialmente ci diceva solo che Carrie è una cantante.

In seconda battuta ho suggerito a Emiliano di concentrarci sulla fuga di Carrie. La mia idea era mostrare Carrie seduta nella corriera, abbracciata alla sua chitarra, mentre guarda dal finestrino la città che sta lasciando. Emiliano ha osservato che concettualmente l’immagine era giusta, ma "sacrificava" il paesaggio. E, allentando un po’ l'aderenza alla storia, ha proposto di mostrare Carrie che si allontana a piedi dalla sua città.

Trovo questa copertina praticamente perfetta, e non solo perché è un bellissimo disegno, ma perché racconta con una sola immagine la storia di Carrie. Ci dice che Carrie è una ragazza, che suona la chitarra, che si lascia alle spalle la sua città, e che questo – lo capiamo dall’espressione sul suo volto – è un addio. Sullo sfondo, un’auto si avvicina , e dall'inclinazione sembra che proceda a forte velocità, sbandando leggermente. Forse c’è qualcuno che insegue Carrie. Questo non è un elemento presente nella storia (a meno di non considerarlo un simbolo dei ricordi che inseguono Carrie); ma funziona egregiamente, trasmettendo al lettore un senso di inquietudine.

Avete già visto sul retrocopertina del numero 4 la splendida copertina del numero 5. E vi anticipo che vedrete tra qualche mese - forse per la prima volta nella storia della casa editrice – una copertina senza personaggi. Magari ne riparleremo. Ovviamente dopo l'uscita dell'albo, per evitare gli spoiler.